Luci ed ombre dell’accordo di Malta sui migranti


Per la prima volta si stabilisce che chi sbarca in Italia sbarca in Europa e che accoglienza e rimpatri non saranno sulle spalle solo dei paesi di approdo. Resta il nodo del rapporto con la Libia. Ma le priorità restano sbarchi fantasma e rimpatri, gli emblemi del fallimento di Salvini

Un passo avanti ma non certo una svolta. L’hanno sottolineato anche i diretti interessati ed è del tutto evidente che l’accordo siglato lunedì 23 settembre a Malta non è certo risolutivo (e come potrebbe mai esserlo…) riguardo il problema dei migranti ma non per questo è meno importante. Soprattutto perché per la prima volta fissa in un documento ufficiale due principi da tempo rivendicati dal nostro paese: chi sbarca in un porto italiano (o maltese) sbarca in Europa e il fatto che l’accoglienza ma anche i rimpatri di chi arriva non saranno più solo sulle spalle dei paesi di approdo.

Se per una volta si mettesse da parte il tifo calcistico per una o l’altra parte politica, si dovrebbe unanimemente ammettere che si tratta di un risultato oltremodo significativo per l’Italia, probabilmente il più importante dell’ultimo decennio nel campo delle politiche migratorie. Ed è emblematico che ad ottenerlo, praticamente al suo primo impegno da ministro, sia stata Luciana Lamorgese che non nasconde la propria soddisfazione:

Da oggi possiamo dire che l’Italia non è più sola nella gestione dei flussi migratori – ha dichiarato – sono molto soddisfatta della disponibilità mostrata dagli altri stati, non era affatto scontato. Non è un pacchetto chiuso, siamo aperti ad eventuali emendamenti ma è la base per il superamento dell’accordo di Dublino”.

Il meccanismo di redistribuzione automatica dei migranti salvati nel Mediterraneo settentrionale da navi umanitarie, militari o commerciali riguarderà non solo chi ha diritto alla protezione umanitaria ma tutti i richiedenti asilo. La redistribuzione tra i paesi che aderiscono all’accordo sarà obbligatoria e lo Stato che riceverà la sua quota di migranti dovrà farsi carico di tutto, dall’accoglienza, alla valutazione dell’istanza di asilo fino al rimpatrio di chi non ha diritto. Nell’accordo è stato inserito anche il concetto di rotazione dei porti (che stava particolarmente a cuore all’Italia), anche se su base volontaria.

Inevitabilmente in tanti hanno visto l’accordo come una pesante e clamorosa sconfitta della politica attuata dal precedente ministro dell’interno, Matteo Salvini, e più in generale del sovranismo all’italiana, una sorta di delegittimazione della politica aggressiva dei suoi 14 mesi di governo. La realtà, però, è un po’ differente e molto più semplice.

Non si può parlare di sconfitta o delegittimazione della politica salviniana per il semplice fatto che il leader del Carroccio, da ministro dell’interno, non ha mai concretamente fatto politica, non ha mai concretamente assunto una posizione più o meno forte in Europa a tutela del nostro paese nell’ambito della politica migratoria. Nei 14 mesi in cui è stato al governo Salvini ha continuato a fare quello che, almeno fino a questa estate, sapeva fare meglio, cioè solo ed esclusivamente propaganda.

D’altra parte l’obiettivo del leader della Lega nei mesi in cui è stato in carica come ministro dell’interno non è mai stato quello di fare fatti concreti per affrontare il problema dei migranti e per spingere l’Europa ad assumere una posizione differente, ma molto più semplicemente sfruttare la sua carica istituzionale per continuare a generare paura tra gli italiani e accrescere l’ostilità nei confronti della Ue. D’altra parte gli atti e le proposte politiche per influire o cambiare la politica europea si fanno nelle sedi istituzionali opportune, non nei salotti e negli studi televisivi o, tanto meno, con video e post sui social.

E trovare soluzioni, cercare accordi di collaborazioni ed effettive risoluzioni dei problemi è una strada faticosa e complessa da dover seguire, molto più semplice e producente (in termini di riscontro elettorale) imboccare la strada della propaganda. “Il ministro Lamorgese ha dimostrato con i fatti a Salvini che sbattere i pugni sul tavolo non è mai conveniente” hanno sottolineato alcuni autorevoli commentatori politici. Dai quali, però, ci permettiamo di dissentire. Perché è sicuramente vero che in certi ambiti bisogna anche e soprattutto saper mediare, avere pazienza e cercare di fare breccia con perseveranza.

Ma siamo altrettanto certi che a volte, in quegli stessi ambiti, è invece utile anche alzare la voce, sbattere i pugni sul tavolo, fare la voce grossa. Però, ed è questo il nocciolo del problema, bisogna farlo nelle sedi appropriate, non certo nel salotto della D’Urso o nei video postati sui social. In altre parole, non abbiamo alcun elemento concreto per dire che “sbattendo i pugni sul tavolo” Salvini non avrebbe comunque ottenuto nulla. Semplicemente perché il leader della Lega non ci ha neppure provato, ha praticamente disertato tutti gli incontri e gli appuntamenti ufficiali in Europa nei quali si discuteva del problema dei migranti.

Come non ricordare, ad esempio, quando nel giugno scorso il leader della Lega (e allora ministro dell’interno) saltò l’importante vertice europeo con i suoi 27 colleghi europei, nel quale si discuteva di migranti, sbarchi, redistribuzioni e dell’ipotesi di ridiscutere determinati accordi così penalizzanti per l’Italia, per andare in tv nel salotto della D’Urso. Una scelta che sicuramente ha pagato in termini di consenso elettorale ma che, altrettanto sicuramente, ha pesantemente penalizzato il nostro paese (senza la dovuta e importante rappresentanza istituzionale in un così importante incontro).

Per questo, quindi, non è corretto e non lo sarà neanche in futuro provare a mettere a confronto le politiche concrete dei due ministri per il semplice fatto che Salvini sul tema dei migranti e del coinvolgimento dell’Europa non ha fatto politica ma semplicemente propaganda. Tornando a quanto accaduto lunedì scorso a Malta, pur rappresentando un indiscutibile passo avanti, l’accordo ha un grave difetto e due importanti limiti. Il difetto è che si ribadisce la bontà degli accordi con la Libia (“Stiamo lavorando bene con la Libia” ha affermato il ministro Lamorgese), continuando così a fingere di ignorare ciò che accade nei campi di accoglienza (detenzione) libici.

I limiti, invece, sono quelli di un accordo che si occupa solo di una parte di un problema molto più complesso. E che, in particolare, non si concentra per nulla sui cosiddetti “sbarchi fantasma” (che sono tornati ad essere la maggioranza), così come non affronta la problematica questione dei rimpatri. Sia il ministro degli esteri Di Maio che la stessa ministro dell’interno Lamorgese hanno sottolineato nei giorni scorsi che sarà fondamentale lavorare in quelle due direzioni. Che poi sono state l’espressione più evidente e imbarazzante del fallimento di Salvini come ministro dell’interno.

In particolare pesa sul leader della Lega l’incomprensibile decisione di chiudere (a fine 2018) il Gruppo Interforze di contrasto all’immigrazione clandestina (Gicic), per anni vero incubo per i trafficanti di essere umani, che non solo nel corso della sua attività aveva arrestato 1051 scafisti ma, soprattutto, di anno in anno aveva creato uno sterminato archivio, dove erano catalogate le informazioni relative ad ogni migrante sbarcato dal 2006 al 2018, ad ogni scafista (vedi articolo “Guerra alle Ong, assist agli scafisti: l’Italia ai tempi di Salvini”).

Quale che sia stata la ragione che ha portato ad una simile decisione (il ministro dell’interno aveva promesso che avrebbe creato in breve tempo una forza simile…), è indiscutibile che la chiusura del Gicic sia stato un clamoroso autogol e, al tempo stesso, un grandissimo favore (sicuramente involontario…) alle associazioni criminali che sfruttano il traffico di essere umani e agli scafisti. Che, non a caso, da inizio 2019 sono tornati a popolare incontrastati il Mediterraneo.

Negli ultimi mesi (con ancora al governo Salvini) si sono moltiplicati gli “sbarchi fantasma” che al momento rappresentano la vera emergenza. Quanto al problema dei rimpatri c’è davvero poco da dire. L’aveva sparata grossa in campagna elettorale il leader della Lega, parlando di 600 mila rimpatri in 6 mesi. Poi, nel contratto di governo, aveva parlato di 500 mila irregolari che sarebbero stati rimpatriati in 18 mesi.

I fatti hanno evidenziato in maniera imbarazzante la sua assoluta inattendibilità. Non solo ha fatto peggio dei ministri e dei governi che l’hanno preceduto (circa 10 mila rimpatri in 14 mesi, un record negativo…) ma, soprattutto, Salvini non ha neppure provato a negoziare gli accordi con gli stati direttamente interessati ai rimpatri senza i quali, è del tutto evidente, non è possibile neanche pensare di rimpatriare gli irregolari. Proprio da questo punto, da quei necessari accordi, ha intenzione di ripartire il nuovo ministro dell’interno.

La strada da percorrere è lunga e tortuosa. Ma consola che finalmente c’è chi non parla su tv e social ma lavora in silenzio con scrupolo e, soprattutto, ha la forza e il coraggio di farsi sentire nelle sedi istituzionalmente preposte. Un passo avanti non da poco…

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