Non è un paese per “giornalisti giornalisti”: c’era una volta la libertà di stampa…
Tutti la invocano e la blandiscono, in concreto, però, nessuno la vuole realmente o si comporta in maniera da sostenerla realmente. E la politica di fatto l’ha messa al bando. Siamo un paese per “giornalisti impiegati”, non per “giornalisti giornalisti”
“Le persone per scegliere devono sapere, devono conoscere i fatti. Allora quello che un giornalista-giornalista dovrebbe fare è questo: informare”. Parlava così Giancarlo Siani, di fronte ad una platea di studenti, pochi giorni prima di essere ucciso dalla camorra (con la complicità della politica locale). Nel film di Marco Risi che racconta la sua storia (“Fortapasc”) c’è un passaggio che è il triste manifesto della realtà del nostro paese, ora come allora. E’ la chiacchierata in spiaggia tra Siani (nel film Libero De Rienzo) e il suo caporedattore Sasà, (Ernesto Mahieux) che lo mette in guardia ricordandogli che “questo non è un paese per giornalisti-giornalisti. E’ un paese per giornalisti impiegati”. “Però ti capisco – aggiungeva Sasà – anch’io quando ero giovane volevo cambiare il mondo. Poi ho capito come vanno le cose”.
Nessuno vuole giornalisti liberi che informano
Siani non ha fatto in tempo a capirlo ma probabilmente non l’avrebbe accettato. Perché chi ama questo mestiere, chi lo vive con passione, come una missione (“il giornalista? Lo immagino come un vendicatore capace di riparare torti e ingiustizie” sosteneva Enzo Biagi) non ha scelta, può fare solo il “giornalista giornalista”. Il problema è che oggi, ancora più di allora, l’Italia non è un paese per “giornalisti giornalisti” e la tanto invocata e incensata “libertà di informazione”, teoricamente tutelata dalla Costituzione, ormai da tempo non esiste più. Ipocritamente tutti la invocano, la blandiscono. In concreto praticamente nessuno la vuole realmente o, tanto meno, si comporta in modo da sostenerla davvero.
Soprattutto nessuno vuole davvero “giornalisti giornalisti”, giornalisti liberi che hanno ancora il coraggio di svolgere quel ruolo di “cane da guardia del potere”, per usare la definizione cara a Montanelli. Non li vuole e li mette di fatto al bando la normativa vigente che consente ai potenti di turno di perseguitare i giornalisti liberi e li espone a rischi e ricatti impossibili da aggirare. Non li vogliono le forze politiche, tutte, nessuna esclusa, che hanno tutto l’interesse a poter continuare a disporre di mezzi letali per minacciare e limitare chi, inevitabilmente sempre meno, ha ancora l’insana voglia di fare il “giornalista giornalista”. Ma non li vuole, a parte rarissime eccezioni, neppure l’opinione pubblica, ormai sempre più divisa in bande di ultras “accecati”, per le quali la libertà di informazione vale solo per chi è fedele alla propria linea, intolleranti verso qualsiasi opinione differente e non allineata, ancor più nei confronti di chi “osa” raccontare fatti che si scontrano con gli interessi della propria fazione. In un simile contesto, senza le “spalle coperte” da qualche grosso gruppo di potere, solo un inguaribile masochista può ostinarsi a fare il “giornalista giornalista”, continuando ad esporsi senza difese alle feroci pressioni e alle continue minacce di ogni genere di chi detiene una qualche forma di potere, in balia del “ricatto giudiziario”, facile bersaglio delle bande di ultras e della loro sempre più insopportabile violenza verbale.
Minacce, pressioni, ricatti per ridurre “a più miti consigli”
A molti sembrerà esagerato sentir parlare di pressioni, ricatti e minacce nei confronti di chi racconta i fatti in un tranquillo territorio di provincia. Invece è la semplice quanto sconcertante realtà che viviamo da anni in prima persona. Potremmo scrivere e pagine e pagine, probabilmente libri e libri (e probabilmente presto lo faremo…) per raccontare tutte le forme di pressione subite, i vergognosi ricatti diretti o indiretti, in particolare nei confronti di chi ha concretamente provato a sostenerci. Parliamo di sponsor, editori, finanziatori o anche semplici collaboratori, abbiamo ancora bene impressa nella memoria la vergogna e l’umiliazione dipinti sul loro volto quando, a malincuore, ci confessavano di doversi tirare indietro “per evitare pesanti ritorsioni”.
Per non parlare degli spregevoli ricatti e i vergognosi tentativi di riportarci “a più miti consigli”, mettendo nel mirino i nostri familiari più o meno stretti. L’emblema di cosa significa e cosa comporta fare oggi il “giornalista giornalista” anche in un tranquillo territorio di provincia, però, è la rituale processione di amici e pseudo sostenitori che ti manifestano in privato tutto il loro appoggio e apprezzamento, spiegandoti però che non possono permettersi di farlo pubblicamente perché “sarebbe troppo pericoloso, le conseguenze potrebbero essere molto pesanti”. L’espressione “troppo pericoloso” riferito ad un giornalista dovrebbe essere utilizzata per un inviato in zone di guerra, per chi si occupa di mafia e criminalità organizzata, non certo per chi racconta i fatti di un tranquillo territorio di provincia.
La madre di tutti i ricatti, la querela per diffamazione
Se poi pressioni e minacce, dirette e indirette, non ottengono i risultati sperati, allora c’è l’arma letale, la madre di tutti i ricatti, la querela per diffamazione. Intendiamoci, in assoluto non è la legittimità della querela per diffamazione a mezzo stampa in discussione. Il problema è che l’attuale indefinitezza del concetto stesso di “diffamazione” (che, se solo si volesse, sarebbe sin troppo semplice definirlo e limitarlo in maniera inequivocabile), unita all’evidente squilibrio, a svantaggio del querelato, dell’attuale procedura giudiziaria, che a prescindere dall’esito finale è comunque pesantemente penalizzante per chi la subisce, rendono l’istituto della querela una micidiale ed efficacissima arma a disposizione della politica per tacitare la libera informazione e, soprattutto, i liberi giornalisti senza le “spalle coperte”.
Ormai per la giurisprudenza il concetto di diffamazione è diventato così ampio che può rientrarci anche una qualsiasi critica, un commento semplicemente più sostenuto. E la procedura che si innesta, a fronte della presentazione della querela stessa, di fatto non lascia scampo a chi viene querelato. Perché nella stragrande maggioranza dei casi, in particolare quando a presentarla sono i politici o importanti amministratori pubblici, quasi automaticamente si apre un procedimento che può protrarsi anche per anni. Fino a qualche anno fa non era così, alla presentazione della querela seguivano indagini e accertamenti approfonditi che determinavano che si procedesse e si arrivasse in aula solo quando si riteneva che potessero davvero esserci i presupposti. E, non a caso, la percentuale di querele archiviate nella fase preliminare, senza arrivare a processo, era elevatissima.
Ora, invece, avviene esattamente il contrario. Si arriva quasi sempre a processo, spesso senza alcuna seria verifica o approfondimento preliminare. Emblematico, ad esempio, un caso che abbiamo vissuto direttamente, costretti ad affrontare un processo per diffamazione perché accusati di aver scritto cose che, però, nell’articolo incriminato non c’erano. Come poi è stato inequivocabilmente accertato nel corso del procedimento in tribunale durato anni ma che chiunque avrebbe potuto verificare preliminarmente, semplicemente leggendo l’articolo “incriminato”. Eppure nonostante una simile indiscutibile evidenza e la conseguente assoluzione con formula piena siamo stati costretti a pagare le spese legali, inevitabilmente pesanti dopo un procedimento comunque lunghissimo.
Allo stesso modo nell’ultimo caso, al punto che quella formula, “assolto perché il fatto non sussiste”, suona a dir poco beffarda, sembra una presa in giro. Perché si tratta di un’assoluzione piena pagata, però, a carissimo prezzo, economico ma non solo. Il punto cruciale è proprio questo, una volta che si arriva in tribunale (e come abbiamo visto attualmente praticamente sempre ci si arriva), quale che sarà poi la sentenza il giornalista querelato ha comunque sempre perso e il politico che querela in qualche modo ha comunque sempre vinto, perché ha la certezza di aver comunque ottenuto qualche risultato, di aver messo comunque in difficoltà il giornalista. A quel punto si tratta solo di capire se si perde di misura o di goleada. Infatti se viene prosciolto, anche con formula piena, dovrà comunque pagare le proprie spese legali, da tariffe legali comunque piuttosto elevate dopo procedimenti sempre molto lunghi. Se invece viene condannato, allora la “stangata” rischia di essere impressionante, tra la sanzione, le spese processuali, le spese legali del querelante (e se va male poi anche il risarcimento) e naturalmente le proprie spese.
La sproporzione tra i “rischi zero” del querelante e la certezza di dover comunque pagare dazio del querelato è imbarazzante ed inaccettabile e, inevitabilmente, diventa un clamoroso incentivo per i politici che hanno la certezza che, mal che vada, non avranno conseguenze e, invece, comunque ne produrranno sicuramente al giornalista querelato. Il conto è presto fatto, con un paio di querele all’anno che arrivino a procedimento, a prescindere poi dall’esito finale, diventano un costo quasi insostenibile per un giornalista libero e indipendente, che non ha le “spalle coperte”. Nella migliore delle ipotesi siamo alla libertà di informazione… a pagamento. E’ del tutto evidente che, a queste condizioni, più che improbabili eroi, bisogna essere “pazzi masochisti” per continuare a fare il “giornalista giornalista”. Eppure basterebbe pochissimo per riequilibrare la situazione, sarebbe sufficiente definire in maniera chiara e limitata il concetto di “diffamazione” e soprattutto mettere sullo stesso piano, per oneri e rischi, chi querela e chi è querelato. Se ne parla da decenni, nessuna forza politica hai mai provato a farlo, a proporlo.
Negli ultimi 20 anni hanno governato, a turno, tutte le forze politiche, tutti gli schieramenti, nessuno ha pensato di cambiare questa situazione in nome, in questo caso si, della tutela della libertà di informazione. La ragione è semplice ed inequivocabile, da destra a sinistra, passando per il centro, fa comodo continuare a tenere viva questa forma di potente ricatto. E se è innegabile che con il governo Meloni la situazione è peggiorata, nel senso che si è accentuato il ricorso a querele per tentare di bloccare quel che resta della libera informazione, è altrettanto innegabile che prima, anche quando c’erano altri a governare, non che la situazione fosse particolarmente migliore.
L’opinione pubblica sempre più allergica alla libertà di informazione
Sicuramente e indiscutibilmente peggiorato, e di molto, l’atteggiamento di gran parte dell’opinione pubblica a cui interessa poco o nulla anzi, di fatto mal digerisce la libertà di informazione. E, soprattutto, non sopporta in alcun modo i “giornalisti-giornalisti” che hanno l’ardire di raccontare fatti sgraditi, di esprimere opinioni non in linea con la propria fazione. La violenza verbale con cui vengono puntualmente “lapidati” e messi alla gogna, la campagna di fango a cui vengono sottoposti dalle varie fazioni, gli insulti, le minacce e la costruzione di menzogne di ogni tipo sono ormai la quotidianità. Chi non scrive ciò che vuole una determinata fazione nella migliore delle ipotesi è al soldo di qualche “potere forte”, quindi merita qualsiasi genere di insulto e offesa, senza il minimo rispetto. “Disapprovo quello che dici ma darei la vita perché tu possa dirlo” diceva Voltaire (o almeno si attribuisce a lui questa espressione).
Ora accade esattamente il contrario, contro chi esprime un’opinione differente o racconta fatti non in linea con i “desiderata” di una determinazione fazione è ammessa qualsiasi bassezza, qualsiasi offesa, vera o falsa che sia. L’aspetto paradossale di questo modo di agire è che, poi, chi lo pone in atto, per rafforzare la propria tesi, la propria posizione, cita come un mantra la classifica sulla libertà di stampa di Reporter sans Frontieres, che effettivamente vede l’Italia molto indietro, al pari di nazioni che consideriamo “terzo mondo”, come prova inconfutabile contro i giornalisti italiani. Peccato, però, che nessuno di loro ha mai letto quella classifica. Perché scoprirebbero che, in realtà, l’Italia è così indietro anche e soprattutto per le inaccettabili condizioni in cui sono costretti ad operare i giornalisti italiani, esposti a minacce e ricatti di ogni genere, non solo da parte della politica.
Con un simile contesto, come direbbe Lubrano “la domanda sorge spontanea”: perché mai un giornalista libero e senza l’appoggio di grossi gruppi alle spalle dovrebbe essere così masochista da continuare a fare il “giornalista giornalista”? Sinceramente, dopo tutto questo tempo, non riusciamo più a trovare una risposta…