Elezioni in Sardegna: il peccato di hybris e l’autogol della Meloni, la lezione ai Jep Gambardella del centrosinistra


Non ricandidare il governatore uscente Solinas (Lega) per puntare sul sindaco di Cagliari (FdI) è stata una mossa prepotente, arrogante ed incauta, pagata con una pesante sconfitta personale dalla Meloni. Ma dalla Sardegna arriva anche una lezione per il centrosinistra…

L’espressione insolita livida e truce e il tono rabbioso degli interventi del direttore de “Il Secolo d’Italia” (il giornale di Fratelli d’Italia e di Giorgia Meloni) Italo Bocchino ad “Otto e mezzo”, quando ancora non c’era alcuna certezza sul risultato finale ma si profilava già il clamoroso ribaltone, spiegano meglio di tante parole quanto fa male e quanto pesante sia per la presidente del Consiglio la sconfitta in Sardegna. Se è vero che solitamente la vittoria ha tanti padri mentre la sconfitta è sempre orfana, questa volta non c’è alcun dubbio che la responsabilità di questa inattesa battuta d’arresto è tutta della Meloni. Che, come avrebbero detto i greci, ha peccato di hybris, di quella tracotanza e arroganza tipica di chi si fa prendere la mano dal potere al punto da sentirsi invincibile, da ritenere di potersi accaparrare tutto, senza considerare e senza alcun rispetto nei confronti degli altri, alleati (o presunti tali) compresi.

Prima di ogni considerazione politica sul significato e sui possibili insegnamenti che si possono trarre dalla vittoria di Alessandra Todde (Pd, M5S e altri partiti di centrosinistra) e della conseguente sconfitta della destra, alcuni dati e alcuni fatti che aiutano a delineare il quadro. Partendo dal fatto che Alessandra Todde è la prima presidente di Regione del Movimento 5 Stelle che ha avuto diversi sindaci, anche in città molto importanti (Roma e Torino, ad esempio) ma mai un presidente di Regione. Proseguendo con il dato oltremodo significativo che erano quasi 10 anni, esattamente dal 2015, che il centrosinistra non strappava una Regione alla destra e che dal 2020 la destra stessa non perdeva un’elezione regionale. Nella precedente tornata regionale (2019) aveva vinto ed diventato governatore della Sardegna il candidato della destra Solinas con il 47,8%, con centrosinistra e M5S che si erano presentati divisi e avevano ottenuto rispettivamente il 32,9% e l’11,2%.

Quindi, prendendo a riferimento le precedenti elezioni regionali, la destra (considerando che allora il Partito sardo, questa volta presente nella coalizione, si era presentato con un proprio candidato, ottenendo il 3,3%) da oltra il 51%, mentre l’alleanza centrosinistra – M5S (considerando che alcuni partiti che nel 2019 facevano parte del centrosinistra questa volta hanno sostenuto Soru) dal 38%. In altre parole la destra partiva con un vantaggio consistente, di circa il 13%, annullato dall’importante crescita (oltre il 7%) di centrosinistra-M5S e dal proprio altrettanto considerevole crollo (quasi un 7% in meno). Come solitamente accade in entrambi gli schieramenti, inizialmente sembrava scontata la ricandidatura del governatore uscente Solinas (Lega). E, secondo tutti i sondaggi dell’epoca, non sembrava esistere il minimo dubbio sulla sua rielezione. Solo che Giorgia Meloni non ha voluto sentire ragioni, da “padre padrone” della sua coalizione e del suo governo ha preteso a tutti i costi che il candidato alla presidenza della Regione Sardegna fosse del suo partito (Fratelli d’Italia), certa della vittoria.

Non ci si può far niente, è la sua natura, la sua voracità non ha limiti perché nasce dalla concezione assolutamente distorta, frutto delle sue radici, su cosa significhi guidare un paese, una coalizione. L’aveva detto prima delle elezioni politiche, “non faremo sconti” e così sta facendo, arraffando per la sua parte politica ogni posto di potere nel paese e, soprattutto, per il suo partito. Non si è fatta alcuno scrupolo di andare allo scontro con un sempre più irritato Salvini, che comprensibilmente chiedeva di rispettare la regola della ricandidatura del governatore uscente, non accontentandosi di averlo ridimensionato ma volendolo umiliare. Per farlo ha preso a pretesto l’annuale sondaggio sul gradimento dei governatori regionali de “Il Sole 24 Ore” che vedeva Solinas all’ultimo posto, fingendo di ignorare che un conto sono i sondaggi sul gradimento e un altro le elezioni (Fassino, sconfitto a Torino dall’Appendino un paio di mesi dopo essere risultato al secondo posto nel gradimento dei sindaci, ne sa qualcosa…).

Una mossa prepotente, arrogante e incauta perché lasciando la candidatura di Solinas la Meloni avrebbe avuto solo da guadagnare. Perché in caso di vittoria, certa secondo i sondaggi, con FdI largamente primo partito della coalizione avrebbe potuto ampiamente accreditarsi la vittoria, guadagnandosi ulteriore credito nei confronti degli alleati, mentre in caso di sconfitta la responsabilità sarebbe inevitabilmente caduta tutta su Salvini e sulla Lega, con le inevitabili conseguenze politiche del caso. A completare la “frittata” l’incoerente e autolesionistica scelta del nuovo candidato, quel Truzzi (FdI) sindaco di Cagliari al terz’ultimo posto (su 109 primi cittadini) nella classifica di gradimento dei sindaci. E in questo caso dalle urne è arrivata un’incontestabile conferma, visto che la Todde proprio a Cagliari ha distanziato il sindaco cagliaritano di quasi il 20% (53% contro il 34%).

Al di là del fatto che l’inevitabile scarso coinvolgimento dei leghisti potrebbe aver fatto la differenza (sarebbero bastati 3 mila voti in più alla destra per vincere), ora ovviamente si trova a dover fare i conti con un Salvini che ha tutte le intenzioni di sfruttare questo evidente scivolone (e lo ha subito dimostrato nel Consiglio dei ministri del post elezioni regionali). A completare l’opera autolesionistica, come i sondaggi hanno iniziato a mostrare un cambiamento di tendenza e a far balenare l’ipotesi anche solo di una vittoria meno facile e certa del previsto, la presidente del Consiglio (che evidentemente non aveva cose più importanti da fare…) si è buttata a capofitto nella campagna elettorale, fino alla degna conclusione messa in scena con quel comizio unitario a Cagliari, con tutti i leader della destra sul palco (e l’eloquente espressione di Salvini), ubbidienti “paggetti” di contorno al grande show della Meloni che, infischiandosene delle esigenze di quella regione (mostrando così scarsa conoscenza e mancanza di rispetto nei confronti dei sardi), ha sfruttato il palcoscenico per elencare e vantarsi dei molto presunti risultati del suo governo e per sbeffeggiare ferocemente gli avversari. Che, però, la loro rivincita questa volta se la sono presa nelle urne.

Se le responsabilità e il peso della sconfitta della destra sono chiarissime, non meno evidenti sono le indicazioni più importanti che emergono da questa elezione. La prima, la più evidente, è la conferma dell’assoluta mancanza di una classe dirigente adeguata a destra e nel partito della Meloni. Perché se per sostituire un presidente uscente ultimo nel gradimento si sceglie un sindaco terz’ultimo è chiaro che non ci siano alternative valide. La seconda è che Meloni e la destra devono sempre ricordare che non rappresentano certo la maggioranza del paese e governano (in maniera pienamente legittima) solo perché dall’altra parte come al solito ci si è divisi (come è noto sarebbe bastato un accordo di desistenza al sud per non consentire alla destra, alle passate elezioni politiche, di avere questa maggioranza).

Al di là delle farneticazioni del povero Bocchino sui voti di coalizione (bisogna comprenderlo, la “botta” è stata pesante), togliendo quelli del Partito sardo (che non fa parte organicamente della maggioranza di governo) i partiti di governo hanno ottenuto poco più che il 44% rispetto al 43% di quelli di della coalizione centrosinistra – M5S. Percentuali esattamente in linea con quelle degli ultimi sondaggi (45% a 43%), senza considerare che con l’8,5% ottenuto dal candidato Soru (sostenuto da partiti come +Europa, Azione e Rifondazione Comunista sempre dell’area di centrosinistra) il divario, ma a favore del centrosinistra, sarebbe netto. Dovrebbero ricordarselo la presidente del Consiglio e i partiti della sua maggioranza che invece continuano a millantare di rappresentare l’ampia maggioranza del paese. Quanto all’altra parte politica c’è poco da aggiungere.

Dalla Sardegna è arrivata la conferma di quanto è chiaro da sempre, se si vuole vincere e provare a determinare le sorti del paese (o, come in questo caso, di una regione) non c’è altra strada che unirsi. Sembrano finalmente averlo capito Elly Schlein e Giuseppe Conte, un po’ meno Matteo Renzo e Carlo Calenda che continuano ad ispirarsi a Jep Gambardella (Toni Servillo), mitico personaggio de “La grande bellezza”. “Non volevo solo partecipare alle feste, io volevo avere il potere di farle fallire” affermava Gambardella. E’ quello che hanno provato a fare anche questa volta Renzi e Calenda, consapevoli di non poter in alcun modo vincere con un proprio candidato ma di poter così far fallire i progetti e le speranze di vittoria del centrosinistra.

Devono comprendere (e non sono due inesperti dilettanti che non se ne rendono conto) che fino a che questo è il quadro politico e fino a che la destra resta unita, in questo modo sono destinati alla quasi irrilevanza. Se poi, come in Sardegna, non riescono neppure “a far fallire le feste” allora il loro destino è la più completa e totale irrilevanza…

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