L’ingloriosa fine del “Circo Barnum” della XVIII Legislatura


Il teatrino andato in scena negli ultimi giorni fotografa ciò che è stata questa legislatura, una delle peggiori della storia della Repubblica. Caratterizzata dal fallimento del M5S, dall’ascesa e tramonto di Salvini ma anche dall’irreversibile crisi di identità della sinistra

Mai come in questo caso l’indegno teatrino andato in scena negli ultimi giorni fotografa al meglio il livello sempre più basso in cui è sprofondato il nostro sistema politico. E alcuni episodi dell’ultima surreale settimana sono l’emblema di ciò che è stata questa XVIII legislatura. Come l’applauso commosso a Draghi dei ministri dei partiti che lo hanno sfiduciato, nel corso dell’ultimo Consiglio dei ministri, come se fosse stato qualcun altro a mandarlo via.

Per non parlare dei penosi interventi in aula di Candiani (Lega) e Castelleone (M5S), personaggi che sembrano usciti dal capolavoro di Victor Hugo “I miserabili”, a cui una persona sana di mente non affiderebbe neppure una televendita di pentole a cui, invece, è stato riservato il compito di spiegare le motivazioni della rottura, mentre i rispettivi leader osservavano e ascoltavano visibilmente imbarazzanti, senza trovare il coraggio e gli attributi per assumersi in prima persona le responsabilità di una simile scelta. L’apice del paradosso, poi, si è raggiunto con il M5S da una parte e Lega e Forza Italia dall’altra che si dichiaravano il reciproco disprezzo, giurando che mai più sarebbero stati insieme, proprio mentre “insieme” decidevano di mandare a casa Draghi, i primi lamentando scarsa attenzione dal presidente del Consiglio, i secondi accusandolo di dare troppo retta proprio al M5S.

Neppure Pirandello sarebbe stato capace di scrivere una simile trama, degna chiusura di 4 anni e 4 mesi (tanto è durata la legislatura) che definire surreali è un eufemismo. Non sappiamo se sia stato il peggior Parlamento della storia della nostra Repubblica, anche perché i precedenti non sono stati certi molto migliori. Di sicuro, però, lo spettacolo offerto in questi anni è stato ben più che indegno, è mancata solo la “ciliegina sulla torta” dell’elezione a Presidente della Repubblica di Silvio Berlusconi (ma già è oltre modo significativo che la sua elezione sia stata una possibilità concretamente presa in considerazione).

Per non parlare, poi, del cosiddetto “trasformismo”, un fenomeno purtroppo tipico della politica italiana ma che in questi anni ha raggiunto picchi impensabili. In seguito alle elezioni del marzo 2018, alla Camera  si sono formati 11 gruppi politici (in rappresentanza di altrettanti partiti) che, quando Mattarella ha sciolto le Camere, erano diventati più del doppio, con 20 gruppi politici più il gruppo misto e complessivamente ben 27 partiti (alcuni gruppi comprendevano più partiti): Forza Italia, Fratelli d’Italia, Italia Viva, Lega, Liberi e Uguali, Movimento 5 Stelle, Pd, Alternativa, Azione + Europa, Radicali Italiani, Centro Democratico, Coraggio Italia, Europa Verde, Verdi europei, Maie, Psi, Facciamoeco, Manifesta, Potere al popolo, Rifondazione comunista, Minoranze linguistiche, Noi con l’Italia, Usei, Rinascimento Adc, Vinciamo Italia, Italia al centro con Toti, Gruppo misto (86 deputati) e 15 deputati non iscritti ad alcun gruppo.

Da un punto di vista strettamente politico, la XVIII legislatura verrà comunque ricordata per alcuni risvolti importanti, che avranno una notevole sul quadro politico nazionale. Innanzitutto il fallimento del M5S (certificato dai numeri) e la contestuale fine dell’illusione della diversità grillina. Poi l’immediato tramonto, dopo la rapida e folgorante ascesa, di Matteo Salvini, ora soppiantato da Giorgia Meloni. Ma anche la definitiva scomparsa dal panorama politico italiano di una destra moderata ed europea, fino all’irreversibile crisi di identità di quel che resta della sinistra che, ormai, si fatica ad identificare come tale, sempre più terribilmente simile all’estrema destra.

Al culmine di un’irresistibile ascesa, le elezioni del 2018 avevano sancito il trionfo del M5S. Che, con il 32,7% alla Camera e il 32,2% al Senato, era di gran lunga il partito con il maggior numero di parlamentari, ben 227 deputati e 112 senatori. Sbarcati in Parlamento guidati dai due indiscussi leader, Di Maio e Di Battista, con slogan e propositi bellicosi. “Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno”,“non faremo alleanze con nessuno” ripetevano ossessivamente. Invece è accaduto esattamente il contrario, si sono alleati con tutti pur di restare al governo, con la peggiore destra sovranista, con il centro, con l’odiato Pd. I 2 leader di allora non ci sono più, Di Maio uscito dal M5S per fondare un altro gruppo, Di Battista tornato a fare quello che sa fare meglio, il fancazzista.

Al momento dello scioglimento delle Camere la pattuglia grillina in Parlamento era più che dimezzata (104 deputati e 61 senatori), mentre tutti i sondaggi (per quanto, come sempre, da prendere con le dovute precauzioni) sono concordi nell’attribuirgli non più del 10%. Al di là dei numeri, però, sono le scelte operate in questi anni ad aver sgretolato il mito della diversità del M5S. Che, invece, una volta al governo ha palesato e riproposto tutti i peggiori vizi di quella che viene definita in senso dispregiativo la “partitocrazia”. D’altra parte sin dai primi giorni di legislatura il M5S ha subito mostrato di voler mettere senza esitazioni in cantina determinati principi che si credevano “sacri” e irrinunciabili.

Con il vergognoso compromesso che ha portato i grillini ad eleggere presidente del Senato quella Casellati che, fino a pochi giorni prima, nella loro visione della politica era considerata “impresentabile”, massima espressione di quel modo spregiudicato di intendere la politica tipicamente berlusconiano contro cui avevano furiosamente combattuto. Solo il primo di una serie di “tradimenti”, con la contestuale riproposizione di tutti i malvezzi e le distorsioni tipiche della “partitocrazia”, fino al rapido e radicale cambio di atteggiamento sulla cosiddetta “questione morale” (niente più immediate dimissioni con un semplice “avviso di garanzia” come invece chiedevano prima). Poteva piacere o meno, di sicuro, però, fino al 2018 il M5S aveva una sua precisa e ben definita identità, che si basava su principi ferrei e indiscutibili, che però pian piano si è completamente persa.

Ora Conte, provando a sfruttare la nota scarsa memoria degli italiani, insieme a quel che resta del M5S prova a riciclarsi come improbabile leader dei progressisti. Lo era decisamente meno, però, quando ha messo la sua indelebile impronta e la sua firma su uno dei provvedimenti più biechi e reazionari, emblema della peggiore destra sovranista e razzista, con tendenze liberticide. Stiamo parlando dei decreti sicurezza (l’ultimo dei quali conteneva norme che miravano a limitare il diritto di manifestazione), sicuramente imposti da Salvini ma all’epoca, e per molto tempo ancora, convintamente difesi e rivendicati da Conte e dallo stesso M5S. Salvo, poi, fare frettolosamente marcia indietro, criticarli (come se non li avessero approvati loro) e alla fine cancellarli con il secondo governo Conte (quello giallo rosso).

Il vero grande protagonista della legislatura, però, indiscutibilmente è stato Matteo Salvini. Irresistibile la sua ascesa, con quel motto “prima gli italiani” che ha fatto così rapidamente presa, nella prima parte di legislatura, con la Lega addirittura balzata oltre il 30% e Salvini lanciato verso un futuro da presidente del Consiglio. Altrettanto rapido, però, il suo tracollo e il tramonto dopo l’estate del Papeete, con l’allora ministro dell’interno che praticamente non ne ha azzeccata più una, al punto che persino la sua leadership nella Lega è stata messa in discussione. Certo, la politica italiana degli ultimi 20 anni ha raccontato spesso di inattese “resurrezioni”, ma il momento d’oro di Matteo Salvini sembra essere definitivamente tramontato.

Non sembrano, invece, esserci dubbi sul fatto che l’ultima legislatura ha segnato la definitiva scomparsa di una destra moderata, che non metta in discussione determinate conquiste e diritti civili. Al pari di quel che resta della sinistra, sempre più in crisi di identità, che negli ultimi mesi ha definitivamente perso ogni contatto con la propria storia, con quelli che sembravano (e teoricamente continuano ad essere) i suoi principi irrinunciabili. Senza dilungarci ulteriormente, l’emblema di questa triste deriva è Marco Rizzo, le cui ultime sconfortanti esternazioni lo rendono più adeguato al ruolo di leader di qualche formazione di estrema destra. E che con la possibile alleanza con l’ex leghista e complottista, regina delle “bufale”, Francesca Donato ha davvero toccato il fondo, facendo sprofondare nel ridicolo quel che resta della sinistra.

In conclusione di certo non rimpiangeremo questa XVIII legislatura. Anche perché, se “il buongiorno si veda dal mattino”, la XIX rischia seriamente di nascere con auspici se possibili peggiori…

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