Trattativa Stato – mafia: quando l’assoluzione pesa più della condanna


La Corte di appello di Palermo assolve Dell’Utri “per non aver commesso il fatto” e Mori, De Donni e Subranni “perché il fatto non costituisce reato”. Confermando, quindi, che una trattativa comunque c’è stata. Con tutte le conseguenze che ne derivano…

Come è ormai tradizione (una sconfortante tradizione…) del nostro Paese, abbiamo assistito alla solita reazione da ultras “acceccati” dopo la sentenza di appello sulla trattativa Stato-mafia. E se dopo il primo grado avevano esultato i cosiddetti “giustizialisti”, ora è la volta dei cosiddetti “garantisti” e di chi ha sempre creduto che in realtà non sia esistita alcuna trattativa a festeggiare. Detto che prudenza e senso civico dovrebbero spingere ad aspettare quanto meno la fine del percorso giudiziario prima di esultare, definire puerile questo approccio alle vicende giudiziarie è addirittura riduttivo. Quel che è peggio, però, è che questa volta a rendere tutto terribilmente più desolante è che quella sentenza diventa per qualcuno l’occasione per riscrivere la storia del nostro Paese, reinterpretando e speculando su fatti e vicende che invece restano chiarissime e completamente differenti da come ora vengono incredibilmente narrate.

Così in questi giorni abbiamo ascoltato e letto un autentico diluvio di impressionanti sciocchezze da parte di giornali, giornalisti, presunti opinionisti, esponenti politici e anche magistrati (ed ex magistrati) che ci sembra necessario provare a fare alcune considerazioni. Non senza prima aver fatto alcune doverose premesse. La prima è che sarebbe stato opportuno quanto meno attendere le motivazioni della sentenza prima di esprimersi in una certa maniera. La seconda, non meno importante e fondamentale, è che in un paese civile le sentenze si rispettano, sempre e comunque, non solo quando fanno comodo. E, come vedremo, è ridicolo e al tempo stesso incoerente il comportamento di chi ora finge di considerare sacro quanto sancito da quella sentenza mentre fino a poco tempo fa (ma in un certo senso ancora ora) aveva esattamente l’atteggiamento opposto.

Naturalmente, però, affermare che le sentenze si rispettano non vuol certo dire che non si possono discutere, commentare e anche criticare. C’è un evidente e chiaro abisso tra le due cose che, per altro, diventa ancora più ampio quando, come nel caso in questione, le vicende giudiziarie riguardano direttamente la vita politica del Paese. Perché dovrebbe essere del tutto evidente che un determinato comportamento può tranquillamente essere lecito dal punto di vista giudiziario ma assolutamente deprecabile e criticabile dal punto di vista politico. Infine bisognerebbe sempre tener presente che la storia giudiziaria dell’Italia consiglierebbe a tutti una maggiore prudenza, visto che non è affatto da escludere che il terzo grado di giudizio (la Cassazione) cambi nuovamente lo scenario.

Andando nello specifico, non si può che partire da cosa ha sancito la sentenza della Corte di assise di appello di Palermo che ha assolto dall’imputazione a loro ascritta Giuseppe De Donno, Mario Mori, Antonio Subranni e Marcello Dell’Utri, ha confermato in toto la condanna per Antonino Cinà, in parte quella per Leoluca Bagarella, mentre per Giovanni Brusca è stata confermata la prescrizione. Come anticipato per avere il quadro esatto della situazione bisognerà necessariamente attendere le motivazioni. Ma è innegabile che già il dispositivo della stessa sentenza fornisce più di qualche indicazione. Come, ad esempio, il fatto che De Donno, Mori e Subranni sono stati assolti perché “il fatto non costituisce reato”, mentre Dell’Utri “per non aver commesso il fatto”.

La differenza è netta e anche le conseguenze che ne derivano. La prima e più evidente è che, per semplificare, non è affatto vero che, come ora proclamano con superficialità in tanti, che secondo la sentenza non ci sarebbe stata alcuna trattativa. Quell’assoluzione perché “il fatto non costituisce reato” significa che una trattativa, che qualcosa comunque c’è stato ma che, secondo i giudici della Corte di appello di Palermo, quel “qualcosa” non è da considerare un reato. Per cercare di inquadrare meglio la situazione, occorre innanzitutto ricordare bene di cosa si sta parlando. In tal senso la prima cosa che bisogna tenere a mente è che gli imputati erano accusati del reato previsto dall’art. 338 del codice penale, violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato.

Secondo l’accusa avevano trasmesso le minacce ai governi in carica tra il 1992 e il 1994 da parte di Cosa Nostra: ancora bombe e stragi se lo Stato non avesse allentato la lotta alla mafia. Nello specifico, sempre secondo l’accusa (e secondo i giudici di primo grado che hanno condannato gli imputati a 12 anni di reclusione), i carabinieri Mori, De Donno e Subranni e gli esponenti di Cosa Nostra Bagarella e Cinà recapitarono il ricatto mafioso ai governi Amato e Ciampi, lo stesso Bagarella e Dell’Utri al governo Berlusconi. Secondo la Corte di appello, però, Dell’Utri non ha recapitato alcun messaggio al governo del Cavaliere (“il fatto non sussiste”), mentre per quanto riguarda i tre carabinieri ha considerato che il fatto è stato commesso senza dolo, senza la volontà di infrangere la legge. D’altra parte che questa interlocuzione tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra ci sia stata è ribadito dalla conferma della condanna di Cinà, il medico di Riina, che era accusato di aver fatto da postino al “papello”, cioè il foglio di carta con le richieste avanzate dal capo dei capi per far cessare le stragi.

Per altro non bisogna mai dimenticare che i primi a parlare di trattativa furono proprio Mori e De Donno al processo di Firenze sulle stragi del 1993. Le motivazioni della sentenza spiegheranno meglio i ragionamenti che hanno portato la Corte di Appello a decidere in questa direzione. Quello che è certo e indiscutibile sin da ora, però, è che un’interlocuzione, una sorta di trattativa tra i vertici di Cosa Nostra e pezzi dello Stato effettivamente c’è stata. Quindi chi, dopo la sentenza, sostiene con enfasi il contrario o non ha capito o strumentalizza la sentenza stessa. Ed il fatto che secondo i giudici di appello non costituisca reato (per quelli di primo grado invece si) non significa certo che non si possa riflettere e discutere e non si possa comunque considerare gravemente sbagliato e inaccettabile il comportamento di alcuni pezzi dello Stato che hanno ritenuto giusto interloquire con Cosa Nostra.

In certe circostanze – scrive l’ex pm Carlo Nordio in un appassionato editoriale pubblicato su “Il Messaggero” – un approccio attraverso intermediari con le organizzazioni criminali non è illecito e anzi talvolta utile e doveroso”. “Ho fatto il poliziotto per tanti anni a Palermo, alla squadra mobile. Ma mai mi sarei sognato di andare a dialogare con i vertici dell’organizzazione mafiosa. Se l’avessi fatto, mi avrebbero arrestato” commenta invece il fratello di uno degli agenti di scorta morti con Borsellino (e anche lui agente di polizia), Luciano Traina. Che ricorda a tutti, soprattutto a quelli che ora fingono di dimenticarle, le parole pronunciate da Riina (e riferite da Brusca) nel giugno 1992:“Si sono fatti sotto, dobbiamo dare un altro colpetto”, dando il mandato di organizzare la strage di via D’Amelio.

Ci hanno detto che la trattativa non fu reato. Ma non possiamo dimenticare che quel dialogo segreto dei carabinieri del Ros accelerò la morte di Borsellino e dei ragazzi della scorta” conclude amaramente Traina. Sarebbe sufficiente questo per giustificare un giudizio politico durissimo su quei fatti, a prescindere dal fatto che possano essere considerati reato o meno. Ma c’è d più, se (come sostiene Nordio) per lo Stato a volte “è utile e doveroso” trattare con le organizzazioni criminali, allora a maggior ragione lo Stato stesso dovrebbe consentire ad ogni cittadino di farlo quando in qualche modo può considerarsi in pericolo, come nei casi di rapimento o di estorsioni.

E non riusciamo neppure ad immaginare cosa potranno pensare e come potranno sentirsi i familiari di tutti quei coraggiosi commercianti che, proprio in Sicilia, hanno pagato con la propria vita il prezzo del non aver voluto sottostare al ricatto, del non aver voluto interloquire con i mafiosi che imponevano il pizzo. “Lo Stato ha sempre trattato, in modo più o meno riservato, con le peggiori cosche criminali dell’Italia e del mondo – prosegue Nordio – lo ha fatto con le Brigate Rosse, pagando il riscatto di Ciro Cirillo, tenendo discretamente i contatti con i rapitori di Moro e non cedendo alle richieste dei brigatisti solo perché erano inaccettabili”.

Di inaccettabile, in realtà, c’è che, per dare fondamento a tesi a dir poco “strampalate”, si arriva al punto di stravolgere la storia, i fatti che hanno segnato il nostro Paese. Come appunto la vicenda Moro, “sacrificato” dalla politica in nome del principio che con i terroristi non si tratta, nonostante le Brigate Rosse (che volevano in ogni modo evitare di uccidere lo statista democristiano) avessero alla fine avanzato richieste che, al contrario di quello che sostiene Nordio, erano a dir poco ridicole.

Ed il fatto che si debba ricorrere ad un totale stravolgimento della verità storica per cercare di giustificare determinate posizioni, la dice lunga. Così come non meno imbarazzante è il comportamento di chi cavalca quella sentenza, sostenendo l’inattaccabilità e il profondo valore delle stesse sentenze giudiziarie, per cercare di riabilitare la figura di Marcello Dell’Utri. Che, per chi l’avesse dimenticato, è stato condannato in maniera definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, considerato fino al 1992 il tramite tra Berlusconi e Cosa Nostra.

E se è vero, come chi sostiene oggi questa improbabile riabilitazione di Dell’Utri, che le sentenze sono da considerare “vangelo”, allora forse sarebbe meglio far calare un pietoso silenzio sul braccio destro del Cavaliere…

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