“Sentenza influenzata da pregiudizi maschilisti”, la Corte europea condanna l’Italia


Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo a cui si era rivolta una ragazza che aveva denunciato lo stupro la sentenza di assoluzione dei 6 ragazzi della Corte d’Appello fu influenzata da “pregiudizi maschilisti tipici della società italiana

La sentenza della Corte d’Appello che ha assolto i sei imputati per quello che era stato definito lo “stupro della Fortezza da Basso” (Firenze) fu influenzata da pregiudizi maschilisti tipici della società italiana”. E’ durissimo il giudizio della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che ha condannato il nostro paese perché quella sentenza viola l’art. 8 della Convenzione europea che prevede il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Ma, purtroppo, non sorprende più di tanto. Perché non serviva certo la Cedu per scoprire quanto misoginia e maschilismo continuino ad essere imperanti nel nostro paese.

La vicenda risale al 26 luglio 2008 quando una ragazza di 22 anni denunciò di essere stata stuprata fuori dalla Fortezza da Basso dove erano in corso feste ed eventi estivi. In seguito alla denuncia, ai successivi accertamenti medici e alle conseguenti indagini, vennero arrestati 7 ragazzi tra i 20 e i 25 anni che rimasero per un mese in carcere, poi agli arresti domiciliari. Il processo di primo grado si concluse nel gennaio 2013 con la condanna per 6 dei 7 imputati a 4 anni e 6 mesi di reclusione per violenza sessuale aggravata dal fatto che la ragazza era ubriaca, quindi dal fatto che gli imputati avevano approfittato delle sue “condizioni di inferiorità fisiche e psichiche” causate dall’alcol.

Nel marzo 2015, però, la Corte d’appello rovesciò la sentenza e i 6 ragazzi furono assolti perché “il fatto non sussiste”. Come emerge con chiarezza dalle motivazioni della sentenza, i giudici di appello dubitarono della credibilità della ragazza basandosi soprattutto sulla ricostruzione della sua vita privata e delle sue abitudini sessuali. In particolare nelle motivazioni si faceva espressamente riferimento alla presunta bisessualità della vittima, alle sue complicate e burrascose relazioni sentimentali, alle abitudini e ai rapporti sessuali avuti prima di quella vicenda.

Non solo, nel triste remake di un film già visto troppe volte (ricordate i jeans, l’abbigliamento troppo sexy, i vestiti succinti, ecc.) i giudici di appello fecero riferimento alla biancheria intima che indossava la vittima, che per chissà quale dannato motivo avrebbe messo in discussione la credibilità della denuncia dello stupro (se portava i mutandoni della nonna allora si che era credibile…), sostenendo anche che, pur se chiaramente sotto effetto dell’alcol, la ragazza non sarebbe stata in uno stato di inferiorità psichica essendo  “un soggetto femminile fragile ma al tempo stesso disinibito, creativo, in grado gestire la propria sessualità, di avere rapporti fisici occasionali, di cui nel contempo non era convinta”.

Si tratta di una vicenda incresciosa e non encomiabile per nessuno ma penalmente non censurabile” concludevano i giudici a cui va dato il “merito” di essere riusciti ad inserire in quelle motivazioni la maggior parte dei più biechi e inaccettabili stereotipi tipici del più becero maschilismo di casa nostra. Il problema è che ormai ci siamo abituati, da anni sentiamo e leggiamo sui giornali commenti del genere che si soffermano a sottolineare più le presunte “colpe” della vittima (“perché era ancora in giro a quell’ora?” “perché si è vestita in quel modo?” “perché si è fidata di quegli uomini?”) che l’inaccettabile comportamento dei carnefici. E quel che è peggio è che “baggianate” simili sono spesso presenti anche in alcune sentenze che, purtroppo, hanno fatto la storia (quella più buia e peggiore) del nostro paese.

Come non ricordare, ad esempio, la famosa sentenza nella quale un giudice ha messo in discussione lo stupro perché la vittima indossava i jeans, o quella in cui si nega la violenza perché chi l’avrebbe subita non ha urlato. A differenza di altre volte, in questa occasione la Cedu, a cui si era rivolta la ragazza (dopo aver reso pubblica una drammatica lettera nella quale sosteneva che nel processo di Appello ad essere stata giudicata era stata lei e non l’episodio che lei stessa aveva denunciato), è potuta intervenire e condannare duramente l’Italia proprio in virtù dalla violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani che recita testualmente: “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. Non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

Secondo la Cedu il linguaggio e gli argomenti in sede di appello e determinanti per la sentenza hanno veicolato “pregiudizi sul ruolo delle donne esistenti nella società italiana”, non hanno rispettato “la vita privata e integrità personale della vittima” e hanno omesso di proteggere la donna dalla “vittimizzazione secondaria” che consiste nel trasferire parte della responsabilità di una violenza alla persona che l’ha subita. La Corte di Strasburgo afferma poi che questa violazione della vita privata e dell’immagine della ragazza “non può essere considerata pertinente per vagliare la credibilità dell’interessata e la responsabilità penale degli accusatori” né può essere giustificata “dalla necessità di garantire il diritto alla difesa degli imputati”.

Ancora più duro il giudizio della Cedu sui commenti sulla bisessualità della donna, sulle sue relazioni e sui suoi rapporti sessuali avvenuti prima degli eventi, considerati assolutamente inopportuni e ingiustificati. “Deplorevole e irrilevante” è poi considerato il giudizio sulla “vita non lineare” della ragazza dato dalla Corte di Appello di Firenze.

Le azioni penali e le sanzioni – conclude la Corte europea – svolgono un ruolo determinante nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta alla disuguaglianza di genere. E’ quindi essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni dei tribunali, di ridurre al minimo le violenze di genere e di esporre le donne alla vittimizzazione secondaria con parole colpevoli e moralistiche che rischiano di scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia”.

E’ stato riconosciuto che la dignità della vittima era stata calpestata dall’autorità giudiziaria – commenta l’avvocato che ha rappresentato la ragazza a Strasburgo – purtroppo questo non è l’unico caso in cui la non credibilità della donna si basa sulla vivisezione della sua vita personale e sessuale. Questo succede spesso nei tribunali italiani”. Sulla stessa linea l’associazione D.i.R.e. che riunisce gli 82 centri antiviolenza non istituzionali.

E’ una sentenza importantissima – afferma in una nota – perché stigmatizza la delegittimazione delle vittime di stupro, ritenute corresponsabili delle violenze subite in base a valutazioni legate alla loro vita privata che continuano a essere usate per motivare sentenze condiscendenti verso gli autori delle violenze, nonostante ciò sia vietato da norme interne e internazionali, a cominciare dalla Direttiva dell’Unione Europea sulla protezione delle vittime di reato, dalla CEDAW e dalla Convenzione di Istanbul”. Soprattutto, però, è una sentenza che fotografa alla perfezione una vergogna di cui il nostro paese non può certo andar fiero

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