Non è un paese per donne…


Dalla vicenda di Anna Leone ai “deliri” del senatore Pillon. E poi le esternazioni di Tajani, il caso Rula Jebreal: non c’era bisogno di questi episodi per scoprire che maschilismo e misoginia sono ancora dominanti in Italia. E che resta inaccettabile il cosiddetto “gender gap”

Non c’è neppure il tempo di pensare che si sia toccato il fondo che subito bisogna spostare l’asticella ancora più in basso. Lo avevamo creduto lunedì sera, quando a Torino l’attrice dei “The Jackal” Aurora Leone è stata allontanata dal tavolo con i giocatori della partita del cuore, dal direttore della nazionale cantante Gianluca Pechini, perché donna. “Da quando in qua le donne giocano a calcio?” le ha detto Pechini che poi, di fronte alle rimostranze della Leone (che gli aveva spiegato di essere stata invitata e che le avevano persino chiesto la misura del completino), ha aggiunto: “non farmi spiegare per quale motivo non puoi stare seduta qui, le donne non giocano. Il completino lo indosserai in tribuna”.

Ci ha pensato nelle ore scorse l’ineffabile senatore leghista Pillon a ricordarci che, purtroppo, si può scendere ancora più in basso. Commentando la bella iniziativa dell’Università di Bari, che ha deciso di ridurre le tasse alle studentesse che volessero iscriversi ai corsi di laurea più tecnici e meno frequentati dalle donne, ha “vomitato” tale sconcezza: “è naturale che i maschi siano appassionati più a discipline tecniche, mentre le femmine hanno una maggiore propensione per materie legate all’accudimento”. Naturalmente (si potrebbe aggiungere per completare il desolante quadro) quando, inspiegabilmente, non decidano di fare ciò per cui sono più portate e per cui sono venute al mondo, cioè la brava donna, moglie e mamma di casa, che lava, stira, rassetta, pulisce, cucina e si occupa senza fiatare di servire il proprio uomo e capo famiglia…

Purtroppo non c’era certo bisogno di questi ultimi episodi per scoprire (o forse sarebbe più corretto dire ricordarsi) che l’Italia non è un paese per donne, che, purtroppo, misoginia e maschilismo sono ancora dominanti e pregnano così profondamente la nostra società. Il problema è che, come è avvenuto e sta avvenendo in queste ore, quando si verificano determinati episodi come quelli sopra descritti nell’immediato si scatena il solito putiferio, c’è la gara a chi si indigna di più, si stigmatizzano e si criticano pesantemente quelle parole, quei comportamenti.

Però poi non si ha mai il coraggio di intraprendere iniziative forti che possano realmente far riflettere e possano far capire che non ci può più essere spazio per certe derive, soprattutto si fa sempre poco o nulla in concreto per combattere queste inaccettabili aberrazioni e per ridurre quello che viene definito il cosiddetto “gender gap”. E, per mettersi a posto la coscienza, ci si rifugia dietro all’illusione che in realtà si tratta di comportamenti singoli, isolati. Anzi, il teatrino della finta indignazione postuma per certi versi è ancora più desolante. Nel caso che ha coinvolto Aurora Leone, dopo il maldestro tentativo da parte dell’organizzazione e dello staff della nazionale dei cantanti di negare quanto accaduto (con uno sconcertante post su Instagram poi cancellato), sono poi arrivate le tradizionali reazioni più o meno convintamente stizzite, con tanto di minaccia da parte di qualcuno di disertare l’evento, infine le inevitabili dimissioni di Pechini a chiudere ogni discussione.

Però in concreto, almeno stando alle cronache, nessuno dei presenti al tavolo e alla cena ha ritenuto opportuno manifestare immediatamente il proprio sdegno o, ancor più, alzarsi e andarsene in forma di solidarietà nei confronti della Leone. E, a parte la defezione (per protesta) di Eros Ramazzotti, alla fine la partita del cuore si è regolarmente svolta con tutti i protagonisti previsti. Per quanto riguarda le “farneticazioni” di Pillon, invece, l’imbarazzato silenzio di tutte le esponenti leghiste ma anche del centrodestra è fin troppo emblematico. Al di là dell’infinito squallore, è bene sottolineare a chi cerca di far credere il contrario che quelle due vicende tutto sono meno che casuali, isolate o, tanto più, episodi singoli.

Il maschilismo e la misoginia, la concezione “medievale” del ruolo della donna nella nostra società sono purtroppo la norma nel nostro paese, ne abbiano dimostrazioni praticamente quotidiane. Sarebbe stato sufficiente lunedì sera, nelle stesse ore in cui si svolgevano i fatti relativi alla partita del cuore, guardare in tv “Tiki Taka”, il programma di approfondimento (si fa per dire) sul calcio condotto da Piero Chiambretti e in onda su Italia uno, per avere un’ulteriore terrificante dimostrazione. Quel programma è l’esaltazione del più becero e arretrato concetto di maschilismo che vuole che di calcio se ne occupino esclusivamente i maschietti, mentre le donne invitate in studio (rigorosamente in abiti succinti, con tanto di sfilata accompagnata da commenti e battute da osteria dei presenti) sono presenti solo perché hanno avuto qualche storia o qualche flirt con alcuni giocatori.

Uno squallore imbarazzante che lunedì scorso ha raggiunto l’apice quando, con la presenza dell’ex schermitrice e ora modella e influencer Antonella Fiordelisi, è nata una discussione che ha visto protagonista il giornalista Ivan Zazzeroni che rivendicava il fatto di essere stato il primo ad aver portato la Fiordelisi in tv. “Non conta chi l’ha portata per prima in tv, conta che se l’è fatta per prima” ha replicato Chiambretti nell’ilarità generale. Non ci sono parole, diventa perfino difficile sta dietro ad ogni episodio, ad ogni vicenda che va in questa direzione. Pochi giorni prima c’era stata la sconfortante esternazione del coordinatore nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani, che ha affermato che “la donna si realizza pienamente solo con la maternità”.

Anche in quel caso tante reazioni indignate, anche da parte delle donne del suo partito, ma ovviamente nessuna conseguenza seria e concreta, a nessuno che sia venuto in mente che chi ha una simile concezione retrograda del ruolo della donna non può in alcun modo guidare o essere punto di riferimento di un partito politico. Non meno significativo quanto avvenuto negli stessi giorni con la vicenda che ha coinvolto Rula Jebreal. La giornalista di origini arabe era stata invitata a “Propaganda Live” ma, quando ha visto che tra 7 invitati era l’unica donna presente, ha rifiutato l’invito. Al di là di quello che si pensa del programma di La7 (molti hanno sostenuto, non certo a torto, che in quest’ottica “Propaganda Live” è probabilmente il bersaglio sbagliato), è sconfortante constatare che non si è neppure aperta una discussione intorno al problema che con il suo rifiuto ha voluto porre la Jebreal.

Ho voluto mandare un messaggio forte per evidenziare come in Italia il dibattito pubblico è dominato dagli uomini – ha sottolineato la giornalista – lancio l’allarme per un tema che rispecchia il paese, anche in politica, task force, lavoro. E’ un problema inquietante che viene normalizzato e ignorato”. Un problema che non si può certo banalizzare e che non si dovrebbe far finta di non vedere. Perché è sin troppo evidente, basta guardare chi parla ai convegni, i parterre televisivi di quasi tutte le trasmissioni ma anche e soprattutto le firme di prima pagina dei quotidiani italiani. Gli esperti, anche nell’informazione, sono quasi esclusivamente uomini, a differenza di quanto avviene in altri paesi europei (e ancora più negli Stati Uniti). E non può essere certo un caso, è l’effetto di un certo tipo di mentalità imperante nel nostro paese.

Che, oltre a manifestarsi nella sua forma più deteriore in episodi come quelli descritti, si concretizza in pieno in quello che è definito il “gender gap” e che vede l’Italia tra i peggiori paesi europei. Secondo la tradizionale classifica sul geneder gap stilata dal World Economic Forum il nostro paese è al 63° posto, in leggero miglioramento grazie al fatto che il precedente governo (il Conte II) aveva raggiunto un record storico (almeno per l’Italia), con una percentuale del 34% tra ministre, viceministre e sottosegretarie. Ma a questo piccolo progresso fa da contraltare l’ulteriore peggiore che si verifica nel campo della cosiddetta “partecipazione economica”, con l’Italia che scivola addirittura al 114esimo posto, maglia nera europea.

D’altra parte, però, i problemi e i dati del lavoro femminile sono ampiamente noti: peggior tasso di occupazione (lavora meno di una donna su due, altissima percentuale di contratti part time (il 49,8%), record negativo in Europa per differenzia salariale, mancata possibilità di fare carriera (solo il 28% dei manager sono donne, peggio dell’Italia solo Cipro) e di accesso a formazione (appena il 16% delle donne). D’altra parte, però, se per natura sono più portate ad “accudire” e se si realizzano pienamente solo nella maternità…

bookmark icon