La solita inutile retorica delle “poche mele marce” e degli “onesti servitori dello Stato”


Le solite reazioni ipocrite e retoriche di fronte ai fatti relativi alla caserma dei carabinieri di Piacenza. “Sono stanca di sentire parlare di mele marce, il problema è nel sistema, troppo spesso non vengono prese posizioni chiare e nette” commenta Ilaria Cucchi

Non è certo un caso che i commenti più azzeccati e da sottoscrivere al 100% sulla vicenda della “caserma degli orrori” (la caserma dei carabinieri “Levante” di Piacenza) e sulle solite reazioni ipocrite e retoriche di gran parte del mondo politico e dell’informazione siano arrivate da chi ha vissuto sulla propria pelle il dramma degli abusi delle forze dell’ordine e ha passato gli ultimi anni a combattere per ottenere giustizia. “Quanti ceste di mele marce abbiamo accumulato?” ha laconicamente affermato Patrizia Moretti, mamma di quel Federico Aldrovandi ucciso nel 2005 da 4 agenti di polizia nel corso di un normale controllo.

Sono stanca di sentire parlare di mele marce. Il problema è nel sistema, troppo spesso non vengono prese delle posizioni chiare e nette” ha aggiunto Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. Da sottoscrivere in pieno, anche e soprattutto alla luce delle reazioni di queste ore. Tutte all’insegna della nauseante e vuota retorica delle “poche mele marce” contrapposte alla moltitudine di onesti “servitori dello Stato”, a cui poi si aggiunge la solita bieca speculazione politica di quella destra che considera le forze dell’ordine un fondamentale bacino elettorale, spalleggiata da quella parte dell’informazione sempre più reazionaria, pronta a mettere alla gogna e a gettare fango contro chi in queste circostanze cerca di affrontare con serietà quello che è un indiscutibile e grave (per un paese democratico) problema.

A tal proposito emblematico è il “vomitevole” post di Nicola Porro contro la stessa sorella del povero Stefano (che tra poco verrà accusata di aver fatto uccidere il fratello per poter sfruttare il ruolo di vittima…), accusata di fare “uso politico”, di usare la sua “fama di vittima”. In realtà proprio Ilaria Cucchi ha centrato alla perfezione i termini della questione. Di fronte al ripetersi così frequente di determinati episodi, di fronte ai fatti degli ultimi anni è semplicemente ridicolo continuare a parlare di poche “mele marce” e di rifugiarsi dietro le giustificazioni del caso per non ammettere invece che da un lato è un evidente problema di sistema e dall’altro c’è l’urgente necessità di essere decisamente più intransigenti e duri di fronte a certi episodi.

Nessuno, sicuramente non chi scrive, vuole mettere sotto accusa indistintamente tutte le forze dell’ordine, non c’è alcuna volontà di mettere in discussione il rispetto che è dovuto nei confronti di chi mette quotidianamente a rischio la propria vita per assicurare la sicurezza di tutti i cittadini, né tanto meno si vuole disconoscere che la maggior parte dei rappresentanti delle forze dell’ordine sono e hanno comportamenti irreprensibili.

Ma se davvero si vuole promuovere e rafforzare il rispetto dei cittadini nei loro confronti è innanzitutto necessario smetterla di utilizzarli politicamente (e ovviamente le forze dell’ordine devono evitare assolutamente di farsi utilizzare). Veicolare, come fa da tempo la destra più reazionaria, il messaggio che le forze dell’ordine siano in qualche modo vicine a determinate posizioni politiche è deleterio ed inevitabilmente produce l’effetto opposto, cioè di far perdere completamente credibilità e rispetto nei confronti di polizia e carabinieri. Perché è sin troppo evidente che se vengono utilizzate come strumento di una parte politica inevitabilmente poi non si può pretendere e chiedere per loro quel rispetto che invece è doveroso.

In altre parole, chi ha davvero a cuore gli uomini e le donne delle forze dell’ordine, chi davvero (come dovrebbero fare tutti i cittadini) li considera un baluardo fondamentale della nostra nazione e nutre un sincero e profondo rispetto per loro, deve smetterla di utilizzarli per mera propaganda politica. E’ proprio di questi giorni uno degli esempi più emblematici, il poliziotto utilizzato da Giorgia Meloni per uno dei suoi soliti spot propagandistici. Una doppia vergogna, prima di tutto perché la leader di FdI dovrebbe evitare queste inaccettabili speculazioni, poi perché nessun rappresentante delle forze dell’ordine dovrebbe prestarsi a simili giochi politici. Serve maggior rigore e serietà, vicende come questa o come altre emerse in queste giorni (l’avvocato di Forza Nuova di uno dei carabinieri di Piacenza, la bandiera di Casapound esposta in una stanza del Commissariato Esquilino a Roma e la conseguenza surreale giustificazione) rischiano di minare in maniera irreversibile la fiducia di tutti i cittadini nei confronti delle forze dell’ordine.

Non meno fondamentale, poi, è smetterla di fingere che sia un problema circoscritto ma anche di essere troppo indulgenti, troppo teneri con chi si macchia di certi comportamenti. E’ questo il nocciolo della più che condivisibile affermazione di Ilaria Cucchi, quel riferimento ad un “problema di sistema” e alla mancanza spesso di “posizioni nette e chiare”. E’ semplicemente ridicolo continuare a parlare di “poche mele marce” di fronte ad un elenco di episodi troppo numerosi. Al punto che, non a caso, sono nati comitati, associazioni che tutelano le vittime di abusi e sono sorti siti che raccontano e ricordano determinati eventi. Su uno di questi (Acad) oltre all’elenco c’è il racconto dettagliato per ogni caso, di quello che è accaduto e dell’iter dei relativi procedimenti.

E basta leggere qualcuna di quelle storie per rendersi conto quanto sia difficile e complicato chiedere giustizia in quei casi, dovendo poi scontrarsi con ostacoli di ogni genere, tra un diffuso senso di omertà, un atteggiamento di solito molto indulgente e la volontà di chiudere tutto senza troppi strascichi. In un simile contesto è inevitabile che, alla fine, in queste vicende i casi di condanna sono rarissimi e, in ogni caso, quando arrivano si usa sempre la “manica larga”.

Invece dovrebbe essere esattamente il contrario, gli abusi in divisa dovrebbero provocare (ovviamente quando dimostrati) pene molto severe e conseguenze ancora più severe. Innanzitutto perché chi indossa la divisa ha l’onere e l’onore di rappresentare lo Stato ed è al tempo stesso un rappresentante istituzionale. E poi perché chi ha il compito di far rispettare la legge ha a maggior ragione il dovere di farlo in maniera impeccabile, ovviamente a sua volta senza infrangere la legge stessa.

Da qui si deve partire se davvero si vuole tutelare la maggioranza di onesti “servitori dello Stato”, bisogna dimostrare concretamente con i fatti che non si ha paura a far emergere la verità, che quando si verificano determinati episodi si è pronti a fare di tutto pur di far emergere la verità (invece di frapporre ostacoli di ogni genere come invece accade troppo spesso). E, soprattutto, che non ci può essere scampo e indulgenza nei confronti di chi commette abusi del genere. Per essere chiari, chi si è macchiato di determinati comportamenti non può più indossare la divisa stessa. Invece nel nostro paese avviene esattamente il contrario. Basterebbe pensare, ad esempio, che i 4 poliziotti condannati per l’omicidio di Federico Aldrovandi da tempo sono tornati tutti regolarmente in servizio.

O, peggio ancora, che addirittura i vertici delle forze dell’ordine all’epoca della vergogna del G8 di Genova, i dirigenti che a vario titolo si sono resi responsabili di quelle vicende che hanno indignato tutto il mondo e umiliato profondamente il nostro paese (come le notti della cosiddetta “macelleria messicana” alla Diaz e del carcere cileno di Bolzaneto) non solo non stati cacciati con disonore ma, incredibilmente, hanno fatto anche carriera. A partire dal capo della Polizia dell’epoca, Gianni De Gennaro, divenuto sottosegretario alla Presidenza del Consiglio del governo Monti.

Proseguendo per Gilberto Caldarozzi, condannato in via definitiva a 3 anni e 8 mesi per falso (ha partecipato alla creazione di false prove per accusare chi venne pestato in caserma a Genova da agenti rimasti impuniti), diventato il numero 2 (vice direttore tecnico operativo della Dia, Direzione Investigativa Antimafia considerato il fiore all’occhiello delle forze investigative italiane (nomina decisa dall’allora ministro dell’interno Minniti). E poi ancora Pietro Troiani, vicequestore all’epoca di Genova e condannato in via definitiva a 3 anni per aver fatto portare alla Diaz le false molotov, diventato comandante del centro operativo della Polstrada a Roma. Francesco Gratteri, uno dei superpoliziotti condannato per il sanguinoso assalto alla Diaz, diventato prima capo dell’antiterrorismo, poi Questore di Bari e infine, con il grado di prefetto, coordinatore del Dac (Divisione centrale anticrimine).

Non serve la retorica, la propaganda e le speculazioni politiche. Servono fatti concreti, come mandare definitivamente a casa chi si è macchiato di simili reati. O anche smettendola di fare muro contro l’introduzione di norme e regolamenti che garantiscano maggiore trasparenza e maggiori tutele per i cittadini. Invece in Italia avviene esattamente il contrario, ci sono voluti anni e richiami e condanne dell’Europa prima di approvare la legge sulla tortura, per altro in maniera così annacquata al punto che neppure il principale promotore e primo firmatario della legge stessa (Manconi) alla fine l’ha votata. Sarebbe importante discutere e riflettere su questi argomenti quando emergono determinate vicende, invece di riproporre i soliti vuoti slogan. Che non aiutano in alcun modo e, anzi, rischiano di penalizzare ulteriormente proprio la maggioranza di onesti “servitori dello Stato”.

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