Fase 2 al via, tra 7 giorni le pagelle alle Regioni


Il ministero della salute ha adottato, con decreto del 30 aprile scorso, i criteri per effettuare il monitoraggio del rischio sanitario. E sulla base dei risultati che emergeranno verranno stabilite nuove chiusure o aperture anticipate. Primo appuntamento lunedì 7 maggio

E’ scattata in queste ore la tanto attesa fase 2 ma già all’orizzonte si profila un’altra importante data, una scadenza se possibile molto più importante: lunedì 11 maggio. Quello, infatti, sarà il giorno della prima verifica della situazione di ogni regione che potrebbe poi portare alla nuova chiusura nelle aree dove si manifestassero delle criticità (o se i contagi tornassero a salire) ma anche all’anticipo di nuove aperture dove invece si verificassero determinate condizioni.

A tal fine il 30 aprile scorso il ministero della salute ha adottato, con decreto, i criteri per effettuare il monitoraggio del rischio sanitario. In pratica nel decreto vengono indicati gli elementi in base ai quali in questa fase 2 si decideranno nuove aperture e nuove chiusure su base territoriale.

Allo stato attuale dell’epidemia – si legge nel decreto – il consolidamento di una nuova fase, caratterizzata da iniziative di allentamento del lockdown e dalla loro progressiva estensione, può aver luogo solo ove sia assicurato uno stretto monitoraggio dell’andamento della trasmissione del virus sul territorio nazionale. Altri presupposti sono il grado di preparazione e tenuta del sistema sanitario, per assicurare l’identificazione e gestione dei contatti, il monitoraggio dei quarantenati, una adeguata e tempestiva esecuzione dei tamponi per l’accertamento diagnostico dei casi, il raccordo tra assistenza primaria e quella in regime di ricovero, nonché la costante e tempestiva alimentazione dei flussi informativi necessari, da realizzarsi attraverso l’inserimento dei dati nei sistemi informativi routinari o realizzati ad hoc per l’emergenza in corso”.

Per gli scopi di monitoraggio citati in premessa – si legge ancora nel decreto – e della necessità di classificare tempestivamente il livello di rischio in modo da poter valutare la necessità di modulazioni nelle attività di risposta all’ epidemia, sono stati disegnati alcuni indicatori con valori di soglia e di allerta che dovranno essere monitorati, attraverso sistemi di sorveglianza coordinati a livello nazionale, al fine di ottenere dati aggregati nazionali, regionali e locali”.

In sintesi, il decreto prevede tre differenti elementi, con una serie di indicatori per ogni elemento, in base ai quali verrà effettuato il monitoraggio e, al termine dello stesso, verrà stilata per ogni regione una sorta di pagella che risulterà assolutamente determinante per gli sviluppi successivi. Il primo dei tre indicatori di processo riguarda la capacità di monitoraggio e valuta la capacità di tenere sotto controllo almeno il 60% dei casi notificati, sia di positivi che non vanno in ospedale sia di quelli per i quali invece è necessario il ricovero.

Il secondo indicatore di processo riguarda la capacità di accertamento diagnostico, indagine e gestione dei contatti e consiste nella valutazione della percentuale di tamponi positivi effettuati e nella velocità dei test per far scattare l’allerta in caso di aumento e di pressione sugli ospedali (tra i sintomi e il tampone non devono passare più di 3 giorni viene sottolineato). Verrà, inoltre, valutata la capacità di garantire risorse per il tracciamento dei contatti, l’isolamento e la quarantena, con particolare riferimento alla possibilità di avere organici di personale adeguati.

Infine il terzo indicatore di risultato riguarda la stabilità di trasmissione e di tenuta dei servizi sanitari, con la valutazione dell’andamento del contagio, verificando la situazione nelle ultime due settimane, soprattutto in base al numero di riproduzione che deve rimanere sotto l’1. Vengono, poi, verificati e tenuto sotto controllo gli accessi ai pronto soccorso, la pressione sulle terapie intensive (con l’indicazione che i casi Covid devono occupare meno del 30% dei posti a disposizione) e dei reparti di area medica (con l’indicazione che i casi Covid devono occupare meno del 40% dei posti a disposizione).

La fase di transizione dell’epidemia di Covid-19 – si legge ancora nel decreto – si propone di proteggere la popolazione, con particolare attenzione per le fasce di popolazione vulnerabile, e di mantenere un numero di casi di infezione limitato e comunque entro valori che li rendano gestibili da parte dei servizi sanitari del Paese”.

A tal fine vengono anche stabili due criteri generale per valutare la situazione nel paese e nelle varie regione nella fase di transizione nella gestione del virus: il mantenimento di un numero di nuovi casi stabile o un aumento limitato nel numero di casi nel tempo e nello spazio, che possa essere indagato in modo adeguato e contenibile con misure di controllo locali e il mantenimento o riduzione del numero di casi di trasmissione in strutture che ospitano popolazioni vulnerabili (cluster in ospedali, RSA, altre strutture assistenziali, case di riposo ecc.) e assenza di segnali di sovraccarico dei servizi sanitari. Alla fine del decreto vengono indicati anche due algoritmi, basati sui vari indicatori e sui due criteri generali, che verranno utilizzati per decidere eventuali nuove chiusure in alcune zone.

Più che giusta la precauzione del ministero della salute, soprattutto in considerazione del fatto che questa fase 2 è sicuramente il momento più delicato, nel quale non si possono commettere errori che vanificherebbero i sacrifici fatti in questi quasi 2 mesi. Però è innegabile che alcuni dubbi restano. A partire dal fatto che perché il monitoraggio abbia un significato è fondamentale che le Regioni si impegnino concretamente a raccogliere e trasmettere i dati richiesti, senza omissioni. In altre parole serve un comportamento assolutamente responsabile da parte delle Regioni e, in tutta sincerità, i presupposti non lasciano certo ben sperare.

Non solo e non tanto per la pioggia di ordinanze che nei giorni precedenti l’inizio di questa fase 2 hanno adottato (anche in contrasto con quanto stabilito dal governo). Ma anche e soprattutto perché più in generale si ha la sensazione che diverse Regioni stiano sottovalutando la delicatezza e l’importanza di questa fase. La dimostrazione è che nell’ultimo mese, dopo il momento di crisi toccato a fine marzo, ora che le terapie intensive sono tornate a respirare e a non essere sotto pressione, la prima cosa che hanno fatto le varie amministrazioni regionali è stata quella di tagliare proprio i posti letto di terapia intensiva.

Il 10 aprile complessivamente in Italia c’erano 9.463 posti di terapia intensiva (dai poco più di 5 mila di inizio emergenza). Ora, a fine aprile, ce ne sono già mille in meno, di cui quasi 500 in meno nella sola Lombardia (nelle Marche siamo passati da 237 a 217). Un rischio che ovviamente si spera non debba essere pagato a caro prezzo ma che non era per nulla il caso di prendersi in questo momento, in particolare con l’avvio della fase 2 che potrebbe (naturalmente si spera che non sia così…) far risalire molto in alto i contagi.

L’altro dubbio riguarda a come si comporterà il governo nel caso in cui dal monitoraggio dovessero emergere situazioni che richiederebbero una nuova chiusura in qualche regione. Visto il clima politico di feroce scontro che c’è nel nostro paese, se la regione da chiudere nuovamente fosse a guida centrodestra il governo avrà il coraggio di farlo, ben sapendo che così presterebbe il fianco alle feroci critiche di determinate forze politiche?

A giudicare da quanto è accaduto in queste settimane è più che lecito avere il sospetto che non sia in grado di farlo. Anche perché, a ben vedere, se in questo momento si prendessero come riferimento gli indicatori e i criteri generali stabiliti nel decreto ci sarebbero almeno un paio di regioni del nord che non dovrebbero passare alla fase 2…

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