L’Italia del coronavirus tra il sacrificio di pochi e i diritti di molti


Nel momento più difficile dal dopoguerra ad oggi, nel nostro paese c’è chi mette quotidianamente a rischio la propria vita e si sacrifica al massimo per evitare la catastrofe, mentre decine di migliaia di persone con il loro menefreghismo rischiano di peggiorare la situazione

Chi ha visto e ascoltato a “Piazzapulita” il tragico diario del dott. Roberti Allevi, medico dell’ospedale di Treviglio, non può non aver pensato che è necessario cambiare radicalmente prospettiva nell’analizzare quanto sta accadendo. Quando si affrontano certe tematiche non bisognerebbe mai lasciarsi prendere dalle emozioni. Però chi ha ancora un briciolo di sensibilità di fronte a quella testimonianza difficilmente riesce a farlo e, nello stesso, non può fare a meno di indignarsi prima e riflettere poi. Indignarsi perché non è accettabile che, mentre c’è chi lotta in quel modo per salvare più vite umane possibili, nel resto del paese ci sono migliaia di “idioti” che con il loro menefreghismo rischiano di peggiorare la situazione (in meno di 7 giorni oltre 50 mila persone sono state denunciate per il mancato rispetto delle limitazioni imposte dalle ordinanze).

Riflettere perché, una volta per tutte, forse è necessario iniziare a rendersi conto che in questo delicato momento bisogna affrontare le cose mettendo in secondo piano i nostri diritti. E, magari, chiedersi se, in un simile contesto, ha ancora senso accapigliarsi per stabilire se è lecito o meno andare a correre e passeggiare. Ma anche se è giusto che dagli altri ci aspettiamo il massimo impegno e ogni genere di sacrificio quando, poi, non siamo propensi a fare neppure un minino sacrificio, E più in generale forse è arrivato il momento di ribaltare la situazione, interrogandoci su cosa possiamo e dobbiamo fare noi per lo Stato (inteso come la nostra comunità) prima di pretendere che lo Stato faccia determinate cose per noi.

Stiamo parlando, per capirci, di senso civico, inteso nella sua più ampia e alta accezione, come senso di responsabilità ma anche senso di appartenenza. E proprio responsabilità e appartenenza dovrebbero spingerci a capire che in questo momento bisogna guardare le cose da una un’angolazione differente, senza soffermarci troppo su ciò che è lecito o non è lecito fare. In realtà non doveva certo essere necessario ascoltare quel drammatico racconto per comprende la portata di quello che stiamo vivendo.

Ma a maggior ragione, dopo aver sentito il dott. Allevi, sarebbe il caso di mutare completamente atteggiamento. Non vogliamo cadere nella facile demagogia, ma è un dato di fatto incontestabile che medici, infermieri e tutto il personale sanitario, soprattutto delle zone più colpite dal virus, sono sottoposti a turni di lavoro massacranti, spesso senza neppure avere l’opportunità di mangiare e bere (“una volta che indossiamo la mascherina non possiamo né bere né mangiare perché non abbiamo il cambio” racconta un infermiere dell’ospedale di Treviglio), per non parlare ovviamente dei gravi rischi a cui sono esposti.

Sarebbe un loro sacrosanto diritto non lavorare più di un determinato numero di ore consecutive, così come fare delle pause per mangiare, per bere, per rifocillarsi. Soprattutto sarebbe un loro diritto lavorare solo ed esclusivamente se messi nelle condizioni di non rischiare nulla o quasi.

Non bisogna essere certo dei geni per capire cosa accadrebbe se, con tutte le ragioni di questo mondo, invece di sacrificarsi pretendessero il pieno rispetto dei loro sacrosanti diritti. Non lo fanno, si stanno sacrificando (tanti, purtroppo, anche a costo della loro stessa vita) per noi, per cercare con tutte le forze di evitare una catastrofe peggiore di quella che già stiamo vedendo.

Pur se con ovvie differenziazioni, discorso analogo si potrebbe fare per tutti coloro che lavorano nel settore alimentare. Anche loro, come tutti gli altri cittadini, avrebbero diritto di poter rimanere al sicuro a casa ed anche in questo caso non bisogna avere un quoziente intellettivo particolarmente elevato per comprendere cosa succederebbe se rivendicassero in concreto quel diritto. Il loro “sacrificio” ci permette di vivere qualche disagio in meno, di non doverci almeno preoccupare di rimanere senza cibo e generi di primaria necessità (anche se in tanti si comportano come se esistesse comunque questo rischio).

Siamo così presi dai nostri eventuali disagi (che indiscutibilmente ci sono), dalla volontà di salvaguardare a pieno ogni nostro diritto che riteniamo scontato e normale qualcosa (l’enorme sacrificio per la comunità di queste persone) che così scontato non dovrebbe essere. Il cambio di angolazione consiste proprio in questo, è il momento di pensare che se ci sono persone che arrivano a tanto, che addirittura mettono in gioco la propria vita allora forse qualche piccolo sacrificio possiamo farlo anche noi.

Parliamo naturalmente del tormentone “corsetta si, corsetta no”, almeno fino ad ora consentita. Ma anche dell’innegabile diritto di ricongiungerci ai nostri parenti o, per quanto riguarda noi giornalisti, a quello di dare sempre e comunque una notizia, anche se può determinare delle conseguenze. Partendo proprio dal discorso della “corsetta”, ognuno di noi è sicuro che, facendola da soli, non nuoce a nessuno.

Però ci sono delle immagini di questi giorni che sono emblematiche: i Navigli e la collinetta di San Siro a Milano, il parco Caffarella a Roma (e situazioni simili in altre città) pieni di persone che corrono e passeggiano. Nessuno di loro ha un diritto inferiore all’altro, quindi teoricamente sono tutti nel giusto. Però è indiscutibile che situazioni così sono un problema serio. Allo stesso modo coloro che sono partiti dalla Lombardia per tornare a casa dai parenti, prima che il decreto entrasse in vigore, tecnicamente avevano pieno diritto di farlo, quindi perché colpevolizzarli?

E parlando della nostra categoria (giornalisti), tutti in occasione di quella fuga dal nord, determinata anche dal fatto che gli organi di informazione avevano anticipato il contenuto del decreto, si sono difesi sostenendo che è un diritto inviolabile del giornalista quello di dare una notizia, una volta verificata la veridicità. Sono diritti che hanno pari valore, quelli di medici, infermieri, personale sanitario, dipendenti del settore alimentare, quelli di chi vuole continuare a fare la corsetta o la passeggiata, quelli di chi voleva ricongiungersi con i propri cari prima dell’avvio delle restrizioni, i nostri da giornalisti.

Se tutti ci ostinassimo a pretendere il loro pieno rispetto in questa fase sarebbe un disastro, le conseguenze sarebbero devastanti. E’ chiaro, non siamo certo così ottusi, che i comportamenti e la rivendicazione di quei diritti da parte di quelle categorie di persone non determinano poi le stesse conseguenze. Ma il concetto è (dovrebbe essere) semplice da comprendere. Ci sono persone che hanno messo da parte ogni loro diritto per aiutare, per rendersi utili, per far fronte ad un’emergenza mai vissuta prima.

E’ così terribile pensare che anche noi possiamo fare qualche piccola-grande rinuncia per provare in qualche modo a dare una mano a venirne fuori? Crediamo che sia lecito e non eccessivo attendersi uno scatto in avanti in questo senso, come è altrettanto necessario attendersi che finisca al più presto quella sorta di insopportabile “caccia alle streghe” che puntualmente si è scatenata sui social e che rischia di produrre comportamenti e conseguenze inaccettabili.

Un’auspicabile dimostrazione di maturità che, per altro, permetterebbe anche di evitare il triste spettacolo di esercito e polizia in strada (inevitabile se non si interrompono certi comportamenti), in una sorta di avvilente coprifuoco. Per concludere, senza dilungarci troppo (ci sarà tempo e modo per riparlarne), una buona dose di senso civico sarà fondamentale anche quando poi l’emergenza sarà finita e bisognerà affrontare comunque tempi difficili.

Anche in quel caso invece di pretendere sarà il caso prima di chiederci se abbiano pieno diritto ad avanzare certe pretese. Per essere più chiari, serviranno più risorse per finanziare la ripresa economica e, ci si augura, anche per aumentare in maniera cospicua gli investimenti nella sanità. Senza voler generalizzare e, tanto meno, senza voler in alcun modo lanciare una sorta di crociata contro qualcuno, è opportuno ricordare qui un paio di dati, per altro ampiamente noti.

Nel 2018 (ultimo anno di riferimento) tra le varie categoria delle partite iva ce ne sono alcune che in media non superavano, come dichiarazione, i 5 mila euro all’anno. Nello stesso anno l’Italia si è confermata maglia nera per evasione fiscale con quasi 300 miliardi all’anno. In un caso e nell’altro soldi sottratti non ai nostri governanti ma alla nostra comunità che magari avrebbero permesso maggiori investimenti nella sanità o, in questa situazione, di prevedere aiuti più cospicui. Che chi ha contribuito a togliere fondi alla comunità ora si lamenti perché pretenderebbe (e pretenderà) di più è francamente intollerabile.

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