Il direttore de “Il Fatto Quotidiano”, condannato a risarcire per 95 mila euro il padre di Renzi per tre articoli considerati diffamatori. “Condannati per aver scritto il vero” accusa Travaglio. Ma dalle motivazioni della sentenza emerge ben altra realtà…
Partiamo da un presupposto fondamentale. A differenza di Di Maio e di una fetta consistente dei “nuovi potenti” (come, d’altra parte, dei “vecchi potenti”), per noi la chiusura di un giornale, anche di quello di cui non condividiamo neppure una virgola, resta sempre e comunque una notizia assolutamente negativa.
Per questo abbiamo trovato davvero di pessimo gusto (per usare un eufemismo) la soddisfazione del vicepremier per la presunta situazione di difficoltà (con tanto di previsione di prossima chiusura) del gruppo Repubblica-Espresso e, allo stesso modo, ci preoccupa l’allarme lanciato nell’editoriale di martedì 23 ottobre da Marco Travaglio che parla di rischio chiusura per “Il Fatto Quotidiano” dopo la sentenza di condanna (95 mila euro) da parte del tribunale civile di Firenze in seguito alla querela del padre dell’ex premier Renzi.
“Un altro paio di mazzate come questa e Il Fatto chiude” scrive Travaglio che già qualche mese fa era stato condannato per diffamazione (con il contestuale pagamento di una provvisionale di 150 mila euro) nei confronti dei tre giudici del processo contro Mario Mori. “La sentenza mette a rischio la sopravvivenza del nostro giornale e ci costringe a rivolgerci subito a voi lettori – scrive Travaglio – purtroppo in Italia fare un buon giornale, libero e indipendente, che incontri il favore dei lettori, non basta più. Il bombardamento delle cause civili e delle querele penali a strascico sta diventando insostenibile, perché rende il nostro mestiere più pericoloso di quello degli stuntman o dei kamikaze”.
Tra libertà di stampa e libertà di diffamare
Sappiamo perfettamente, per esperienza diretta, quanto sia difficile, in certi casi praticamente impossibile, in questo paese fare vero giornalismo libero dai legami, dalle influenze e dal controllo di chi detiene il potere (a livello locale ancor più che a livello nazionale). Così come sappiamo come la vera indipendenza in questo mestiere troppo spesso finisca per diventare un handicap quasi insormontabile. Però, al tempo stesso, non siamo tra quelli che pensano che un giornalista e un giornale possano sempre scrivere qualsiasi cosa, che una querela per diffamazione sia a prescindere un attentato alla libertà di espressione. Che, soprattutto per chi fa questo mestiere, è considerata “sacra”.
Perché la libertà di pensiero e di espressione non possono certo significare libertà di offendere e di diffamare, libertà di scrivere falsità. Per questo riteniamo più che legittimo che chi si sente in qualche modo ingiustamente e immotivatamente accusato di qualcosa che non ritiene di aver commesso o, ancor più, chi si sente oggetto non di critiche ma di offese personali abbia tutto il diritto di tutelarsi.
Semmai il problema è che si dovrebbero comunque prevedere delle norme più stringenti, che prevedano delle tutele per chi è querelato senza ragione, solo per una sorta di intimidazione psicologica, per evitare appunto che la querela diventi non un giusto tentativo di tutelare la propria reputazione ma una sorta di mezzo di pressione.
Travaglio condannato, Gomez assolto: una sentenza che fa riflettere
Però questa volta la sentenza del tribunale di Firenze è davvero irreprensibile sotto ogni punto di vista e, anzi, dovrebbe essere presa come importante punto di riferimento in materia. Perché evidenzia con chiarezza la sostanziale e fondamentale differenza che esiste tra dare notizie e approfondimenti di sicuro interesse generale e diffamare con affermazioni non veritiere, non dimostrate e non dimostrabili. Erano 6 gli articoli oggetto della querela presentata da Tiziano Renzi contro i direttori de “Il Fatto Quotidiano” (Marco Travaglio) e de “ilfattoquotidiano.it” (Peter Gomez) e dei giornalisti Gaia Scacciavillani e Pierluigi Giordano Cardone.
Il giudice Lucia Chiaretti ha stabilito che per tre di quegli articoli non sussistesse il reato di diffamazione, assolvendo Gomez e Cardone e condannando il padre dell’ex premier al pagamento delle spese processuali (13 mila euro). Diffamazione che, invece, per il giudice sussiste negli altri tre articoli. Si tratta in particolare di due editoriali, firmati proprio da Marco Travaglio, tra fine 2015 e inizio 2016, e del titolo di un articolo firmato da Gaia Scacciavillani.
“Non c’è alcuna arma di difesa – scrive ancora Travaglio in merito alla sentenza – possiamo prestare tutte le attenzioni del mondo a non scrivere cose false o inesatte. Ma se poi veniamo condannati per aver scritto il vero o per aver esercitato il nostro sacrosanto diritto di critica, allora dovremmo preoccuparci anche di non disturbare certi manovratori”.
Il “metodo” Travaglio: indagato, quindi colpevole
Basta leggere le motivazioni della sentenza per scoprire che la realtà è completamente differente. Il direttore de “Il Fatto Quotidiano” (e la giornalista Scacciavillani) è stato condannato proprio perché secondo il giudice ha scritto cose false e inesatte, di conseguenza perché ha diffamato il padre di Renzi andando ben oltre il sacrosanto diritto di critica. Per il giudice Chiaretti negli articoli di Gomez e Cardone “i fatti riportati sono veri e di interesse pubblico, quindi non diffamatori”.
Negli altri tre, invece, ci sono illazioni, affermazioni non veritiere e accuse false che costituiscono chiara ed evidente diffamazione (se accusi una qualsiasi persona di aver commesso un reato che non ha commesso è evidente che si tratta di diffamazione…). Nell’editoriale dal titolo “I Babboccioni”, ad esempio, Travaglio accusa il padre dell’allora premier scrivendo che “fa bancarotta”. In quel periodo è in corso un’indagine a Genova sull’azienda controllata da Tiziano Renzi ma il direttore de “Il Fatto Quotidiano” ha già emesso la sua sentenza di condanna.
Nel “metodo Travaglio”, che non a caso gli ha procurato non pochi problemi (e numerose condanne), l’esito finale dell’inchiesta è un particolare irrilevante. Se si è indagati, automaticamente si è colpevoli.
“Nella cronaca giudiziaria – scrive il giudice Chiaretti – grava sul giornalista il dovere di raccontare i fatti senza enfasi o indebite anticipazioni di colpevolezza, non essendogli consentite aprioristiche scelte di campo o sbilanciamenti di sorta a favore dell’ipotesi accusatoria, capaci di ingenerare nel fruitore della notizia facili suggestioni”. “L’attribuzione certa di un reato con le parole “fa bancarotta” prima dell’accertamento del fatto stesso da parte dell’autorità giudiziaria – conclude il giudice – integra senz’altro la diffamazione. La notizia deve ritenersi falsa, quindi. E la circostanza non poteva sfuggire all’autore dell’articolo, estremamente esperto nel processo penale e nella cronaca giudiziaria”.
Per chi non avesse ancora compreso, Travaglio poteva scrivere che Tiziano Renzi è indagato per bancarotta ma non certo che è un bancarottiere (“fa bancarotta”). Per la cronaca l’indagine è stata poi archiviata (su richiesta della stessa procura) e il padre del premier completamente scagionato.
Nell’altro editoriale, dal titolo “Hasta la lista”, Travaglio scrive che Valeriano Mureddu, secondo il direttore appartenente alla P3, “vive a Rignano sull’Arno a due passi dalla casa del premier e ha fatto affarucci con Tiziano Renzi”. Nell’articolo, però, non spiega in alcun modo quali sarebbero tali “affarucci”, né in alcuna inchiesta o indagine dell’epoca (o successive) si fa mai alcun riferimento ad un legame e ad un rapporto di affari tra i due.
“Si tratta di una mera illazione lesiva della reputazione di Tiziano Renzi – scrive il giudice – che, dal presupposto della conoscenza tra due persone, fa derivare una non meglio precisata illecita cointeressenza che cagiona certamente discredito e, per di più, l’impossibilità totale di difendersi, attesa la sua genericità”.
Gaia Scacciavillani, invece, è condannata per il titolo del suo articolo: “Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari è nel mirino del pm”. Per il giudice di Firenze siamo di fronte ad una palese “violazione del canone della continenza formale, ovvero di un onere di presentazione misurata della notizia. Senza neanche leggere l’articolo, si è portati a ritenere che Tiziano Renzi faccia parte della coop degli affari nel mirino del pm”. In effetti all’epoca dell’articolo c’è un’indagine in corso sulla coop “Castelnuovese”, di cui Rosi è il presidente.
Ma l’indagine neppure sfiora Tiziano Renzi e all’interno dell’articolo non c’è alcun riferimento, non c’è alcuna prova che possa giustificare quell’accostamento fatto nel titolo.
Il giudice Chiaretti è chiarissima e le motivazioni della sua sentenzia sono inequivocabili. Scavare, indagare, occuparsi dei legami, dei movimenti, degli interessi e dei movimenti imprenditoriali del padre del premier è sicuramente di interesse pubblico. Nei loro articoli Gomez e Cardamone fanno esattamente questo, non lesinando critiche al padre dell’allora premier ma raccontando fatti concreti, veri, inoppugnabili.
Travaglio e la Scacciavillani, invece, rivolgono accuse e fanno illazioni che non possono essere dimostrate o, peggio ancora, che sono palesemente false (come nel caso della bancarotta). La differenza è sostanziale e abissale. Per questo, ribadendo che ovviamente speriamo che l’allarme sia stato volutamente esagerato, se “Il Fatto Quotidiano” continua a subire “certe mazzate” invece di fare inutile vittimismo per Travaglio sarebbe ora di fare un serio esame di coscienza…