Abusi edilizi in via delle Begonie: oltre il danno, la beffa della “giustizia lumaca”


Mentre in sede civile nel  2015 è arrivata la sentenza di primo grado, completamente favorevole alla coppia che ha presentato la denuncia, dopo 7 anni il procedimento penale procede a rallentatore tra udienze interlocutorie, testimoni improbabili e rinvii per i più svariati motivi

Se qualcuno vuole farsi un’idea delle ragioni per cui la giustizia italiana non funziona, dei tempi interminabili di ogni procedimento, anche il più elementare, può venire ad Ascoli dove c’è quello che può essere considerato un caso emblematico. Parliamo della vicenda degli abusi edilizi e delle villette di via delle Begonie di cui ci siamo già occupati (vedi articoli “Abusi edilizi: l’incredibile storia delle villette di via delle Begonie” e “Un interrogazione sugli abusi edilizi in via delle Begonie” ).

Un caso surreale, che si trascina da quasi 15 anni a causa del comportamento incomprensibile del Comune e che, a livello giudiziario, dopo 7 anni è praticamente ancora fermo al via o quasi, tra le solite lungaggini, rinvii per i più svariati motivi, udienze inutili, audizione di testimoni non pertinenti. Il tutto mentre due persone, marito e moglie, attendono pazientemente che sia fatta giustizia, che si metta finalmente e definitivamente la parola fine ad una vicenda che ha sconvolto e continua a sconvolgere la loro vita. E che è venuta a galla quando i due sposi, Claudio e Alfredina, nel 2003 hanno avuto la sventura di acquistare una di quelle villette.

La casa della loro vita, dove far crescere i propri figli, che, invece si è trasformata in un vero e proprio incubo che, a causa dell’ignavia dell’amministrazione comunale e dell’inaccettabile lentezza della giustizia italiana, sembra non dover mai finire. Eppure il tutto poteva e doveva risolversi in brevissimo tempo, non ci sono ragioni valide per giustificare tempi così lunghi. Per quanto riguarda il Comune, il nodo da sciogliere è molto semplice, dovrebbe semplicemente decidere se la richiesta di condono presentata più di 13 anni fa è ammissibile o no.

Dalle carte, dalle relazioni e sulla base delle norme che regolano la materia appare evidente (da sempre) che non lo sia e l’amministrazione comunale dovrebbe agire di conseguenza. Oppure, se per qualche incomprensibile ragione, è convinta del contrario allora accolga la richiesta stessa. Tredici anni sono un tempo più che sufficiente (per usare un eufemismo) per raggiungere una convinzione, è vergognoso che ancora non sia arrivata alcuna decisione.  Discorso per certi versi simile per quanto riguarda il procedimento penale. Che in 7 anni, sulla base delle norme vigenti e delle relazioni tecniche da sempre a disposizione del giudice, non si sia riusciti a stabilire se certe violazioni sono state commesse o meno è davvero incomprensibile.

Intanto Claudio e Alfredina continuano ad attendere, cosa che avviene da ormai 15 anni, da quando nel 2003 di fronte al notaio, al momento di acquistare la villetta, la parte venditrice (la Tamarix) aveva dichiarato che era tutto in regola, che il direttore ai lavori aveva presentato al Comune il rilascio dell’abitabilità, garantendo che non erano state eseguite nell’immobile opere o varianti soggette ad autorizzazioni o concessioni in sanatoria.

Quel certificato, però, non è mai arrivato e i due coniugi, dopo una serie di ricerche e approfondimenti, hanno scoperto che in realtà “non era stata presentata alcuna richiesta di agibilità/abitabilità, né la dichiarazione di conformità degli impianti elettrico e del gas e non erano stati depositati presso il Genio civile i calcoli strutturali, il collaudo statico della struttura e la conformativa alla normativa in materia sismica”. Come se non bastasse, rispetto all’originaria concessione edilizia rilasciata dal Comune, erano state realizzate ben 12 villette in più, con tutto quello che ne conseguiva. Dopo che un sopralluogo effettuato dallo Sportello Unico per l’Edilizia ha confermato tutte le irregolarità della propria villetta e dopo aver inutilmente cercato un accordo con la Tamarix, a Claudio e Alfredina non restano che le vie legali.

Nel marzo 2010 arriva la denuncia in sede civile, l’anno successivo quella penale nei confronti della ditta costruttrice e del direttore dei lavori. Dopo circa 5 anni, il 4 maggio 2015, arriva la sentenza della causa civile, firmata dal giudice Mariangela Fuina, che non lascia dubbi. La Tamarix è condannata alla restituzione del prezzo pagato dalla coppia per l’acquisto della casa (poco meno di 250 mila euro), al risarcimento danni di quasi 70 mila euro e al pagamento delle spese processuali. Nella sentenza si parla di “gravi abusi edilizi”, di irregolarità urbanistiche, progettuali e strutturali. Per i due coniugi una parziale soddisfazione perché, al di là delle spese processuali, la restituzione della somma pagata per la casa e il risarcimento danni sono comunque fermi in attesa della sentenza di appello (che dovrebbe arrivare ad inizio 2019).

Quel che è peggio, però, è che il procedimento penale procede a dir poco a rilento. Le indagini preliminari sono incredibilmente e inspiegabilmente lunghe, ci vogliono ben 4 anni prima di arrivare al rinvio a giudizio. Il 15 maggio 2015 il procuratore della Repubblica, dott.ssa Cinzia Piccioni, firma il decreto di citazione a giudizio nei confronti dei due soci della Tamarix e del direttore dei lavori “imputati del reato p. e p. dagli art. 110, 81 co. 1 c.p., 75 e 95 dpr 380/2001 perché in concorso tra loro realizzavano un complesso immobiliare in totale difformità dalla concessione di lottizzazione 62/1996”.

L’atto di imputazione prosegue poi descrivendo tutte le irregolarità contestate e si conclude in maniera sin troppo emblematica: “in Ascoli Piceno, reato permanente dal 2003”. Ingenuamente si pensa ad un procedimento rapidissimo, ci sono tutti i presupposti per decidere in maniera rapida, ci sarebbe anche la sentenza del procedimento civile da tenere in considerazione. Invece inizia quella che agli occhi di un osservatore esterno sembra un’incomprensibile “melina”, utile solo per ritardare ogni decisione. Dopo un paio di udienze interlocutorie, arriva il terremoto con la conseguente sospensione, nelle zone del cratere, dei procedimenti in corso. Si riparte solo il 12 settembre 2017 con un’udienza che è l’emblema dell’inefficienza della giustizia italiana.

Viene chiamato a testimoniare il dirigente comunale ing. Weldon che, però, da anni non segue più la vicenda. Un’udienza inutile che serve solo a fissare quella successiva, 4 mesi e mezzo dopo, per ascoltare un altro dirigente comunale, l’arch. Galanti che si sta occupando della richiesta di condono edilizio (si perché 13 anni dopo la pratica non è stata ancora definita…). L’udienza era in programma il 30 gennaio scorso, c’era una certa attesa e, da parte del Comune, un’evidente preoccupazione (per il proprio comportamento a dir poco ambiguo), al punto che, nei corridoi a fianco l’aula dove era in programma l’udienza, poco prima del suo inizio è comparso anche un preoccupatissimo sindaco Castelli. Tutto inutile, c’è lo sciopero dei pm e l’udienza salta.

Per carità, il diritto di sciopero è sacrosanto, quello che non è accettabile che si debba ora aspettare altri 5 mesi. Si perché la nuova udienza si terrà solamente il prossimo 5 giugno. La telenovela continua, senza alcun rispetto nei confronti di chi vive questo incubo da anni. Poi, quando si parla della lentezza della giustizia italiana, si lamentano le scarse risorse, la carenza di personale e tutto il solito ipocrita corollario. Però questa vicenda è l’emblema, un’udienza inutile (per la convocazione di un teste sbagliato), un rinvio per sciopero, tempi “biblici” tra un’udienza e l’altra e in un attimo è trascorso un anno senza fare neppure fare mezzo passo avanti.

Vergognoso e inaccettabile, così come è difficile comprendere per quale ragione il Comune non si è costituito parte civile nel procedimento, potendo recuperare quanto meno gli oneri non corrisposti per le 12 villette in più realizzate (si calcola che siano oltre 70 mila euro). D’altra parte, però, abbiamo già ampiamente sottolineato l’ambiguità del comportamento del Comune che da 13 anni continua a non decidere, pur sapendo perfettamente di non avere scelta, di non poter certo concedere il condono. Già solo il fatto che non è stata neppure rispettata la scadenza (la domanda andava presentata entro il 10 dicembre 2004 ma è stata presentata e protocollata solo una settimana dopo, il 17 dicembre) dovrebbe chiudere ogni discorso.

Sarebbe già sufficiente questo ma ci sono altre motivazioni (tutte elencate e circostanziate nelle varie perizie effettuate), per certi versi ancora più significative. Innanzitutto il fatto che il fabbricato si trova in zona sottoposta a vincolo idrogeologico (e quindi le opere abusive non sono suscettibili di sanatoria), poi il fatto che è possibile condonare al massimo una cubatura di 200 mc e qui invece siamo intorno a circa 4 mila mc. E, poi, l’oggetto del condono è stato cambiato, c’è il problema della durata massima delle concessioni edilizie e delle sanatorie, le norme sulla salubrità degli ambienti, senza considerare che anche si ottenesse la sanatoria il certificato di abitabilità non sarebbe assolutamente automatico.

Al di là di ogni considerazione tecnica, c’è da un lato un Comune per il quale 13 anni non sono sufficienti per decidere e una giustizia penale che, dopo 7 anni, è praticamente ancora ferma al via. In mezzo l’interminabile incubo di una coppia di sposi che meriterebbero un po’ più di rispetto da parte delle istituzioni.

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