La legge non è uguale per tutti


Anche se ci illudiamo che,nel ventunesimo secolo, abbiamo raggiunto una sostanziale parità di trattamento, la realtà di tutti giorni ci dimostra che nel nostro paese esistono ancora “Li soprani del Monno”, al di sopra della legge. Come dimostrano i casi Boschi e Di Maio

Mi dispiace, ma io so’ io e voi non siete un c…”. La celebre battuta (dal sonetto “Li soprani der Monno vecchio” di Gioacchino Belli) che il Marchese del Grillo (Alberto Sordi) rivolge ai popolani arrestati dopo una rissa in un’osteria continua ancora oggi ad essere incredibilmente rappresentativa di quello che è la nostra società. Quella raccontata nel film di Monicelli era la Roma papalina di inizio ‘800 nella quale nobili e popolani non avevano gli stessi diritti, non rispondevano allo stesso modo di fronte alla legge, con i primi che sostanzialmente potevano permettersi praticamente di tutto, come se fossero al di sopra della legge.

Oltre 200 anni dopo cerchiamo di illuderci che abbiamo raggiunto una sostanziale parità di trattamento ma la realtà di tutti i giorni del nostro paese ci dice che non è proprio così, che anche nell’Italia di oggi esistono “Li soprani del Monno” (i padroni del mondo), gli appartenenti ad alcune privilegiate caste che in troppe circostanze continuano ad essere al di sopra della legge. Quasi superfluo sottolineare che una di queste caste è rappresentata dai politici che, oltre a godere di una serie interminabile ed inaccettabile di privilegi, in alcuni campi godono di una sorta di impunità. In particolare i parlamentari ancora oggi sono coperti da un’anacronistica e inaccettabile immunità che sostanzialmente permette loro anche di offendere e diffamare chiunque vogliano, senza doversi minimamente preoccupare di dare conto delle proprie affermazioni.

Questo perché i parlamentari italiani da questo punto di vista sono protetti dall’art. 68 della Costituzione che, in realtà, avrebbe un’altra funzione ma che da giudici e magistrati viene interpretato in maniera estremamente estensiva. “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni” recita l’art. 68. L’esercizio delle loro funzioni dovrebbe essere quanto meno limitato all’attività parlamentare, alle discussioni e alle votazioni in aula e nelle commissioni, invece ormai viene esteso e applicato anche agli interventi su tv, giornali e sui social che è davvero difficile considerare “esercizio delle loro funzioni”. Senza dimenticare che non si capisce per quale motivo anche intervenendo in Parlamento un parlamentare possa permettersi di insultare o diffamare qualcuno senza doverne poi dare conto di fronte alla giustizia.

Per quale dannata ragione un giornalista (o qualsiasi altro cittadino) che si permetta di dare del “ladro” ad un parlamentare deve risponderne in tribunale (e se non dimostra concretamente la veridicità della sua affermazione viene inevitabilmente e giustamente condannato), mentre nel caso opposto non ci sono comunque conseguenze? L’incredibile e inaccettabile paradosso di questo stato delle cose è emerso con tutta evidenza proprio in questi giorni con il caso Boschi e il caso Di Maio, vicende simili che però hanno avuto e avranno sviluppi differenti proprio per questa inaccettabile disparità di trattamento di fronte alla legge.

La sottosegretaria del governo Maria Elena Boschi che si è ritenuta infangata e diffamata dalle affermazioni dell’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli sul caso Banca Etruria avrà la possibilità di rivalersi nei suo confronti (ovviamente se si dimostrerà che quelle affermazioni non corrispondono al vero), visto che a distanza di 7 mesi la Boschi ha deciso di procedere in sede civile.

Stessa possibilità, invece, non viene concessa ad una giornalista del Resto del Carlino, Elena Polidori, che si è ritenuta diffamata e infangata dalle dichiarazioni e dal comportamento del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio che, sostanzialmente, l’ha accusata di scrivere il falso, di essere scorretta, inserendola in una sorta di “lista di prescrizione” (nella quale sono stati inseriti i giornalisti sgraditi al Movimento 5 Stelle), trasmessa poi all’Ordine dei giornalisti affinchè valutasse l’opportunità di adottare provvedimenti nei loro confronti (che non sono stati adottati, a dimostrazione che l’Ordine ha comunque ritenuto corretto il comportamento di quei giornalisti).

Non vogliamo entrare nel merito della vicenda, nel senso che non conoscendo nel dettaglio le ragioni che hanno spinto Di Maio a formulare simili accuse nei confronti della Polidori (e di altri giornalisti) non possiamo sbilanciarci in un senso o nell’altro. Semplicemente riteniamo inaccettabile che la Polidori non abbia lo stesso diritto che ha la Boschi o, meglio, che Di Maio abbia un trattamento differente e privilegiato rispetto a De Bortoli solo perché è un parlamentare.

Per altro in questo caso il riferimento all’art. 68 appare davvero estremamente forzato e poco pertinente, pur con tutta la fantasia e l’immaginazione possibile ci sembra difficile che tra le funzioni tipiche dei parlamentari ci sia anche quella di stilare “liste di proscrizione” o stabilire quali siano i giornalisti attendibili e quali no. Quel che è peggio è che in questa già poco edificante si è evidenziato ancora una volta come i nostri politici non solo sfruttino in maniera a dir poco discutibile questo inaccettabile privilegio ma, non paghi, si fanno pure beffe dei cittadini e, soprattutto, dei propri incondizionati sostenitori che sono pronti a credere a qualsiasi “favoletta”, pur di fronte ad una realtà al contrario inequivocabile, per giustificare gli esponenti della propria parte politica.

Passi per l’evidente e clamorosa dimostrazione di incoerenza (“Vogliamo essere cittadini comuni, senza godere di alcun privilegio, quindi rinunceremo sempre all’immunità”  aveva affermato lo stesso Di Maio il 24 giugno 2016), piuttosto ormai ci stupiremmo di fronte ad un politico che si dimostrasse coerente. Quello che invece ci appare inaccettabile è quella sorta di arroganza che spinge, in queste circostanze, i nostri politici a pensare di avere a che fare con degli autentici idioti, che sono pronti a credere anche all’inverosimile (e, sia chiaro, questo discorso non vale certo solo per Di Maio).

Dopo che la stessa Polidori, con un articolo in cui sottolineava proprio la palese incoerenza, ha annunciato l’archiviazione della querela proprio in virtù dell’immunità che protegge i parlamentari, il vicepresidente della Camera invece di tacere ha provato in ogni modo a raccontare una realtà completamente diversa da quella, inequivocabile, che emerge dagli atti stessi. Prima attraverso l’ufficio comunicazione del M5S che ha sostenuto che il proprio esponente non era a conoscenza della querela

Luigi Di Maio – si legge nella nota – non ha mai avuto alcuna conoscenza di un atto processuale relativo alla querela della giornalista Elena Polidori e quindi non hai ma potuto invocare l’immunità parlamentare né rinunciare alla sua applicazione. Il giudice ha evidentemente ritenuto applicabile il diritto di critica, riconosciuto a tutti i cittadini”. Il decreto di archiviazione del giudice, però, smonta inesorabilmente questa “favoletta”, il procedimento viene archiviato sulla base del citato art. 68 della Costituzione, altro che diritto di critica riconosciuto a tutti i cittadini.

Non pago della “figuraccia”, il giorno successivo lo stesso Di Maio è intervenuto accusando, con incredibile “faccia tosta”, i giornali che avevano riportato (correttamente) la vicenda. “E’ falso che io mi sia avvalso dell’immunità parlamentare per sfuggire alle querele di un gruppo di giornalisti, abbiamo sempre detto che i portavoce del Movimento 5 Stelle non utilizzano l’immunità prevista per i parlamentari e così è” scrive Di Maio che poi ripete la storiella che non sapeva nulla della querela che il “giudice che ha archiviato evidentemente ha ritenuto applicabile il diritto di critica riconosciuto a tutti i cittadini”.

Abbiamo già visto che, invece, è stata applicata l’immunità che protegge i parlamentari e che, come tutti sanno, non deve essere invocata ma, al contrario di quello che sostiene il vicepresidente della Camera, viene applicata automaticamente, se il parlamentare stesso non dichiara di volerci rinunciare (e il Movimento 5 Stelle lo sa bene perché in un caso analogo il sen. Gianrusso si è comportato proprio in questo modo).

Quello che è davvero grave, però, è che ciò che dice Di Maio è clamorosamente ed inequivocabilmente smentito da un atto ufficiale, il verbale di identificazione del 5 ottobre scorso, firmato dallo stesso vicepresidente della Camera. In quel verbale è scritto che Di Maio è presente e che è indagato a seguito della querela presentata dalla Polidori. L’esponente del M5S, quindi, sapeva e ha avuto la notifica della querela e, in quella circostanza, se avesse voluto avrebbe potuto dichiarare di rinunciare all’immunità, tenendo fede a quanto aveva dichiarato un anno prima.

Non lo ha fatto semplicemente perché, come la maggior parte dei politici italiani, proprio come il Marchese del Grillo si identifica in quel “io so’ io e voi non siete un c…”. E, di conseguenza, come tutti gli altri si guarda bene dal rinunciare a determinati privilegi…

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