Quando lo sport è diseducativo


Gli episodi avvenuti negli ultimi giorni nel calcio ma anche nel basket e nella pallavolo dimostrano che ormai il valore educativo dello sport non interessa più a nessuno, soprattutto nello sport giovanile. Dove per la maggior parte degli allenatori conta solo vincere, a qualsiasi costo…

Dobbiamo lottare contro chi vuole far passare il messaggio che conta solo ed esclusivamente il successo e non il modo in cui lo si raggiunge, contro chi ritiene 

che chi rispetta le regole è un ingenuo. Resistere all’idea che per arrivare lontano e centrare gli obiettivi certi trucchi, certi espedienti siano inevitabili perché ormai lo sport è questo, perché nella nostra società ormai conta solo essere vincenti, a qualsiasi costo”.

E’ impossibile non ripensare a quelle dichiarazioni di Julio Velasco (uno dei più famosi allenatori al mondo di pallavolo, plurivittorioso con la nazionale italiana) in questi giorni così difficili per lo sport italiano. “Lo sport può avere per i giovani un grande valore educativo ma può anche avere un valore diseducativo, come tutte le realtà dell’essere umano” sosteneva allora Velasco. Il problema è che ormai  il valore educativo dello sport non interessa praticamente più a nessuno, conta solo il risultato, la vittoria a tutti i costi. E’ così a certi livelli, purtroppo è così anche e soprattutto nello sport giovanile. Non solo, se una volta lo sport era anche un esempio del vivere civile, del rispetto delle regole e degli avversari, oggi invece ripropone tutti gli aspetti più deteriori della nostra società.

Di esempi, a tal proposito, purtroppo ne sono arrivati numerosi in questo periodo, in particolare dal mondo del calcio ma anche da altri sport. Mercoledì sera in Lega Pro,, in occasione del derby Carrarese – Pisa si è davvero toccato il fondo a livello di sportività. Con i padroni di casa avanti 2-1, a pochi minuti dal termine dopo un contatto con un avversario nella propria area di rigore un giocatore della Carrarese rimane a terra, colpito alla testa. L’arbitro non fischia la punizione perché la palla è della Carrarese che potrebbe partire in contropiede. Però, visto il duro impatto, i giocatori di casa decidono di buttare palla in fallo laterale per far soccorrere il compagno di squadra.

Quando riparte il gioco il Pisa restituisce palla al portiere della Carrarese che la controlla con i piedi e la posiziona per il rinvio con i piedi ma viene anticipato dall’attaccante pisano Eusepi che, incurante di quanto accaduto, ruba palla al portiere e la deposita in rete per il gol del 2-2. Ne scaturisce un’inevitabile gazzarra, con i giocatori del Pisa che, non paghi di quanto fatto, quasi irridono gli avversari. Chi ha un po’ di memoria ricorderà che nel 2009 qualcosa di simile accadde anche in Ascoli-Reggina, con i bianconeri che in quel caso non restituirono palla alla Reggina, segnando il gol dell’1-0 con Sommese. Ma sulla panchina dell’Ascoli c’era un vero e proprio “signore”, Bepi Pillon, uno sportivo vero che ordinò alla sua squadra di far risegnare i calabresi (che poi vinsero 3-1 la partita).

In questo caso, invece, l’allenatore neroazzurro Pazienza si è ben guardato di compiere un simile gesto di fair play, si è tenuto stretto il vergognoso gol del pareggio che poi, con i giocatori della Carrarese accecati dalla rabbia, si è addirittura tramutato in una clamorosa quanto ingiusta vittoria. Sorvolando sulle “spocchiose” e imbarazzanti dichiarazioni post partita di giocatori e tecnico pisani, la cosa più sconcertante è che qualche quotidiano pisano nel racconto della partita ha addirittura omesso quando accaduto, parlando di generiche proteste dei padroni di casa per il gol del 2-2 comunque regolare. E, in effetti a termini di regolamento l’arbitro non poteva in alcun modo annullare il gol né tanto meno imporre un gesto di fair play al Pisa. Che così ottiene quello che voleva, tre punti per rimanere ai vertici in classifica e chi se ne frega del fair play e della scarsa sportività dimostrata.

Sicuramente più grave e vergognoso è, invece, quanto accaduto nel girone D del campionato Promozione Lazio. Dove qualche settimana fa (ce ne eravamo già occupati in “Storie di ordinario sessismo”) la partita Arpino-Itri era stata sospesa dall’arbitro, la 23enne romana Sara. Che non è certo una novellina, ha alle spalle 6 anni di esperienza e decine di partite arbitrate ed è purtroppo abituata a sentirsi rivolgere dai tifosi offese sessiste. Questa volta, però, si è andati oltre e ad un quarto dal termine, di fronte alle ripetute offese sessiste di un giocatore della squadra ospite, Sara estrae un sacrosanto cartellino rosso.

Il giocatore espulso reagisce male, con alcuni suoi compagni che tentano di portarlo via. Uno di loro, però, addirittura fa peggio, a sua volta la insulta e la minaccia. Sara a quel punto sospende la partita e si chiude negli spogliatoi, aiutata e supportata dalla società di casa. L’Itri, invece, non si sente neppure in dovere di chiederle scusa, anzi addirittura fa ricorso contro la sospensione della partita. Che, incredibilmente, viene  accordata dal giudice con motivazioni che fanno venire i brividi.

Il giudice sportivo, infatti, conferma in toto la ricostruzione fatta da Sara, ammette che per tutta la partita ci sono state offese sessiste, ammette il comportamento offensivo dei due giocatori e, addirittura, anche quello fortemente minaccioso di uno di loro. Ma afferma che Sara è stata solo insultata e minacciata, non ha subito violenza fisica, quindi poteva anche riprendere la partita, dopo che sono intervenute le forze dell’ordine. La prossima volta mandiamo direttamente l’esercito armato fino ai denti così non ci saranno problemi. Il tutto, ovviamente, nel totale silenzio di Lega, Federazione e classe arbitrale che evidentemente ritengono normale questa indecenza.

Così come ormai quasi non fanno più notizia episodi come quello accaduto nel fine settimana passato in Veneto, in un campetto di periferia, dove era in programma la partita Sacra Famiglia – Virtus Agredo valida per il campionato regionale giovanissimi. Tra i padroni di casa gioca un 14enne di colore, di origini nigeriane ma italiano a tutti gli effetti (non che sia così importante…) perché adottato da piccolissimo da una famiglia del posto. Per tutta la partita i ragazzini della squadra avversaria lo insultano chiamandolo “sporco negro”. Dalla panchina e anche da fuori del campo tutti sentono, guarda il caso l’unico che non sente nulla è l’arbitro.

A pochi minuti dalla fine quel ragazzino segna il gol che poi risulterà decisivo (2-1). E allora oltre agli insulti arriva anche un pugno nel basso ventre. Che, dopo che per tutta la partita aveva sopportato in silenzio, provoca un minimo accenno di reazione, subito bloccato. L’arbitro, che ovviamente non ha visto neppure il pugno e non ha sentito gli ennesimi insulti razzisti, questa volta vede e lo espelle. A fine partita il suo allenatore, che ha origini napoletane, chiede spiegazioni all’arbitro e all’allenatore della squadra avversaria, ottenendo come risposta un offensivo “Napoli stai zitto e non rompere”. Tutto molto chiaro, con un simile allenatore non ci si può stupire più di tanto del comportamento dei suoi ragazzi.

Il problema è che, a livello di sport giovanile, si fa un gran parlare dell’influenza nefasta dei genitori, di quanto gli atteggiamenti e i comportamenti di quest’ultimi influiscano negativamente sulla crescita dei ragazzi ma si finge di non vedere un aspetto fondamentale e non meno rilevante. Tanti, troppi allenatori dei ragazzi hanno rinunciato, anzi se ne infischiano del ruolo educativo che dovrebbe avere lo sport e che dovrebbero svolgere anche loro. L’educazione, il rispetto delle regole e degli altri, il fair play, la sportività per molti di loro sono solo degli inutili ostacoli sulla via dell’unica cosa che conta, la vittoria ad ogni costo. E’ così in ogni sport nel nostro paese, non solo nel calcio. Di esempi in tal senso ce ne sono a decine, ne citiamo un paio che arrivano dal basket e dalla pallavolo.

In Piemonte, ad esempio, ha fatto scalpore la storia di due ragazzini di 12 anni, uno nigeriano e uno russo, che sono nati e vivono in Italia, con le rispettive famiglie che hanno il permesso di soggiorno illimitato e che, dopo anni di minibasket, da quest’anno fanno parte della formazione under 13. Però il fatto di non essere cittadini italiani, per una serie di cavilli burocratici anacronistici, comporta che al momento non possono giocare. L’allenatore della squadra in questione ha, quindi, chiesto ai colleghi delle altre squadre di chiudere un occhio, di permettere a quei due ragazzini di scendere in campo. La risposta è stata univoca, se quei due ragazzini scendono in campo tutti gli allenatori chiederanno (e otterrebbero) la vittoria a tavolino.

Esempio per certi versi peggiore ci arriva dalla pallavolo, per giunta dalle nostre zone. Dove, nel corso di una partita femminile, l’allenatore di una delle due squadre si è ben guardato dal chiedere alle sue ragazze di aiutare l’arbitro, di dichiarare (come invece dovrebbe avvenire) quando toccavano e deviano la palla. Anzi, ogni volta che ciò è accaduto (cioè che una ragazza deviava la palla ma l’arbitro non vedeva) poi ha sempre sbeffeggiato le avversarie, dando il “cinque” e lodando la ragazzina che aveva ingannato l’arbitro. Non pago ha poi finto di non sentire un paio di ragazzine che apostrofavano e insultavano l’allenatore avversario. L’educazione, la sportività, il rispetto delle regole e degli avversari per quell’allenatore sono solo dei fastidi, ben vengano ragazzine maleducate e antisportive se poi ciò porta alla vittoria.

Lo sport, soprattutto in età adolescenziale, dovrebbe essere una palestra di vita – sosteneva Velasco – una disciplina intesa non solo come divertimento e sviluppo fisico ma anche e soprattutto basata su quei valori che diventeranno poi i pilastri della vita adulta: il sacrificio, la competizione leale e corretta, il rispetto delle regole e degli altri, il massimo impegno e i sacrifici per ottenere i risultati ma anche l’accettazione della sconfitta”. Superfluo sottolineare che sottoscriviamo ogni sua parola…

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