Da “rottamatore” a “rottamato”: l’irresistibile ascesa e il fragoroso crollo di Matteo Renzi


Approdato a Palazzo Chigi il 22 febbraio 2014, non rispettando la  promessa di passare attraverso le elezioni per diventare presidente del Consiglio, è rimasto alla guida del governo per 1017 giorni, portando a termine diverse “controverse” riforme ma mettendo in mostra anche tutti i suoi limiti

Nella politica italiana non perde mai nessuno, non vincono ma non perde mai nessuno. Dopo ogni elezione resta tutto com’è . Io sono diverso, ho perso e lo dico a voce alta, anche se con il nodo in gola. Io non credo che si possa continuare in un sistema in cui l’autoreferenzialità della cosa pubblica è criticata per decenni da tutti e poi al momento opportuno non venga cambiata. Ma credo nella democrazia e per questo quando uno perde non fa finta di nulla, fischiettando e andandosene sperando che tutto passi in fretta”.

Forse è troppo tardi, sicuramente lo è  per la battaglia sulla riforma costituzionale e per il governo, i prossimi mesi ci diranno se anche per un futuro politico da protagonista. Però è per certi versi buffo e paradossale che Renzi abbia ritrovato (almeno a parole), proprio dopo la pesante sconfitta referendaria, quello spirito da innovatore della politica, da “rottamatore” che, dopo le elezioni politiche del 2013, lo aveva portato prepotentemente a diventare il protagonista indiscusso della scena politica italiana. Certo è indiscutibile che non ci vuole un grande sforzo ad ammettere una sconfitta di fronte a dati del genere (19% e quasi 6 milioni di voti di differenza tra il no ed il si), ma va dato atto all’ormai ex premier di non aver tergiversato, di non aver cercato scuse o giustificazioni, di aver immediatamente ammesso la sconfitta e di aver tirato senza indugi le conseguenze.

E di aver tenuto fede a quello che aveva promesso avrebbe fatto in caso di sconfitta, a differenza di tanti altri politici (a cominciare proprio dal leader del Movimento 5 Stelle Grillo che aveva annunciato che avrebbe lasciato la politica in caso di sconfitta alle europee). Così il 4 dicembre (o, a voler essere pignoli, il 5, visto che le dichiarazioni di Renzi sono arrivate poco dopo la mezzanotte) si è conclusa l’avventura dell’ex sindaco ed ex presidente della Provincia di Firenze alla guida del paese. Un’avventura iniziata il 22 febbraio 2014 e terminata dopo oltre 1017 giorni, che nel momento in cui si è conclusa merita alcune riflessioni, ovviamente lasciando da parte le esasperazioni e le “leggende metropolitane” che hanno accompagnato il premier e il suo governo.

Partendo dal fatto che molto è accaduto in questi mille giorni, tra cose positive e cose meno buone fatte, che hanno evidenziato le potenzialità ma anche tutti i limiti di Matteo Renzi. Che, paradossalmente, ha iniziato la sua parabola discendente nelle simpatie degli italiani proprio nel momento in cui è entrato a Palazzo Chigi. “Voglio passare dalle elezioni e non da giochini di palazzo per diventare presidente del Consiglio” aveva più volte dichiarato a fine 2013 dopo il trionfale successo ottenuto alle primarie del Pd dell’8 dicembre. In quel momento a Palazzo Chigi c’era un altro autorevole esponente del suo partito, Enrico Letta. Quella promessa di passare attraverso le urne per diventare premier, unito all’ormai famoso “#enricostaisereno”,  erano stati accolti con grandissimo favore.

Era il 17 gennaio e la popolarità dell’ex sindaco di Firenze eraai massimi livelli, addirittura una parte dell’elettorato più moderato di centrodestra sembrava pronto a votarlo in eventuali elezioni. L’Italia sembrava finalmente aver trovato quell’uomo nuovo, giovane (all’epoca aveva 39 anni) ma già così scaltro ed esperto, pronto ad interpretare quella voglia di “rottamare” non solo la vecchia classe dirigente ma anche un vecchio modo di fare politica. Sembrava proprio Renzi  quel politico in grado di intercettare e fare proprio quel malcontento crescente, che alle elezioni politiche del 2013 aveva gonfiato all’inverosimile le percentuali del Movimento 5 Stelle, ma interpretandolo e traducendolo in maniera costruttiva e produttiva a differenza del Movimento di Grillo che, almeno in quella fase, non sembrava in grado di esprimere in maniera compiuta qualcosa che andasse oltre la semplice protesta.

Quel giorno nel salotto della Bignardi a La7 (alle “Invasioni barbariche”) il più giovane leader della storia del primo partito della sinistra italiana aveva indiscutibilmente convinto , aveva indicato la via e la strada di un nuovo modo di intendere la politica che non poteva non affascinare gli italiani, stanchi delle paludi in cui il nostro paese era sprofondato dopo il durissimo ventennio caratterizzato dal berlusconismo e dall’anti berlusconismo. Un’illusione durata meno di un mese, cioè fino ai primi di febbraio, quando la direzione Pd ha votato a larghissima maggioranza un documento del suo segretario che sfiduciava il governo Letta. Di per se non una colpa o una decisione non condivisibile (quell’esecutivo era ormai “alla frutta”), ma che avrebbe dovuto portare allo scioglimento delle Camere (pur se non condiviso dal presidente della Repubblica Napolitano) e a nuove elezioni che probabilmente Renzi avrebbe stravinto.

Invece, contro la sua stessa promessa, l’ex sindaco di Firenze ha scelto la strada più breve per arrivare al governo, accettando l’incarico di Napolitano e diventando il 22 febbraio successivo il nuovo presidente del Consiglio. Tutto formalmente legittimo, quella del presidente del Consiglio non eletto dal popolo è una delle tante “bufale” che popolano il web e che trovano credito tra i tanti che ignorano cosa prevede la nostra Costituzione. Però è innegabile che l’aver disatteso quella “solenne” promessa ha provocato una grande incrinatura nel rapporto tra il nuovo leader politico e una parte dei cittadini che, di fronte a quella improvvisa e ingiustificata “giravolta”, hanno perso fiducia in lui, nel suo essere un politico differente da quelli della vecchia classe (o casta che dir si voglia) politica.

Forse può sembrar strano e anche difficile da credere, ma proprio nel momento in cui l’ex sindaco di Firenze è entrato in quel modo a Palazzo Chigi per molti italiani è svanita la speranza di aver trovato finalmente qualcosa di nuovo, di diverso. D’altra parte quel modo spicciolo e un tantino arrogante  di prendere il potere non era certo un comportamento differente rispetto a quelli visti e messi in pratica da quella schiera di politici che lo stesso Renzi diceva di voler “rottamare”.  Di fatto quello è stato il peccato “originale” del leader del Pd, in quel momento in gran parte dell’immaginario comune è definitivamente (e troppo rapidamente) tramontato il “rottamatore”, per lasciare spazio ad un politico tradizionale, magari solo molto più deciso e meno titubante (ma spesso troppo sbruffone e arrogante).

Certo un paio di mesi dopo è arrivato il grande risultato (per il Pd) delle europee, con quel 40,8% (favorito anche dalla bassa affluenza),  mai raggiunto prima da un partito di sinistra in Italia. Ma quello straordinario successo alla fine si è rivelato deleterio per il premier, per il suo smisurato “ego”. I mesi successivi hanno mostrato agli italiani un premier troppo “spocchioso” nell’affrontare le emergenze e le criticità del paese, chiuso nel suo mondo e poco incline al confronto,  ma al tempo stesso costretto a scendere a patti e compromessi con diversi di quei politici che, invece, avrebbe dovuto rottamare, sicuramente a causa delle conseguenze delle elezioni del 2013 che, al Senato, non avevano assegnato la maggioranza al Pd.

Una palude che si è accentuata dopo la rottura del patto del Nazareno (non è importante in questa sede approfondire perché il patto tra il premier e Berlusconi si è rotto) e che, di fatto, ha trasformato una riforma costituzionale condivisa comunque con una larga parte dell’opposizione in un “assolo” della maggioranza. Quello, a nostro avviso, è stato l’ultimo autobus che Renzi avrebbe dovuto prendere per evitare di precipitare verso quella sconfitta inevitabile che poi si è concretizzata domenica. Rotto il patto da Berlusconi, Renzi avrebbe dovuto desistere dal portare avanti la riforma, prendere atto che lo scopo principale della legislatura (fare riforme condivise) non era più raggiungibile e, quindi, dare le dimissioni e andare al voto.

Invece si è ostinato ad andare avanti , a tutti costi e ad ogni costo, arrivando addirittura al punto di accordarsi e di accettare il sostegno di Denis Verdini che, non a torto, per certi versi è considerato un po’ l’emblema di quella vecchia classe politica che, invece, molti italiani si erano illusi che sarebbe stata messa da parte dall’ex sindaco di Firenze. Che, a quel punto, nell’immaginario collettivo di una larga parte di italiani è diventato a tutti gli effetti un componente di quella vecchia e insopportabile casta. Da quel momento è diventato sin troppo semplice per gli oppositori (politici e mediatici) dipingerlo come un politico in continuità con quelli che hanno portato il paese in questa condizione, con i soliti luoghi comuni e le solite “favolette” sui poteri forti, sulla vicinanza con la P2 che tanto piacciono e che fanno sempre presa su un buon numero di scontenti, poco o per nulla informati.

Sicuramente esagerazioni prive di fondamento ma per certi versi comprensibili, in fondo alimentate dai comportamenti e dalla crescente arroganza del premier. Che ha poi finito l’opera, non riuscendo a trattenere la sua smisurata ambizione, trasformando il referendum sulla riforma in una sorta di “redde rationem”, di giudizio universale nei suoi confronti. Il risultato a quel punto era ampiamente scontato e, anche quando il premier se ne è reso conto, solamente a parole ha cercato di spostare l’attenzione sui contenuti della riforma e non su se stesso. Ma i suoi comportamenti, la sua incredibile sovraesposizione nelle ultime settimane di campagna elettorale di fatto hanno consentito ai suoi oppositori di cavalcare ancora lo slogan del voto politico pro o contro Renzi. Il risultato non poteva che essere quello di domenica sera che ha spinto il premier a rassegnare (giustamente) le dimissioni.

I prossimi giorni e i prossimi mesi ci diranno quale sarà il suo futuro (non bisogna dimenticare che, anche nella pesante sconfitta, ha dimostrato di poter continuare a convogliare sulla propria figura un buon numero di voti). Di certo, comunque la si pensi, un dato appare inconfutabile: mai nessuno governo in così poco tempo ha fatto tante riforme (che, ovviamente, è altra cosa rispetto al condividerne i contenuti o meno). Le più controverse e discusse sicuramente restano il Job Acts (contro il quale sono scesi in piazza praticamente tutti i sindacati, anche quella Cgil da sempre vicina all’area del Pd) e la “Buona scuola” che sicuramente ha avuto il merito di aver portato all’assunzione di oltre 100 mila precari ma che ha trovato la forte opposizione della maggioranza del mondo della scuola, in primis i docenti.

Sempre per quanto riguardo la scuola, ma intesa come infrastrutture, nell’indagine annuale “Ecosistema scuola” anche Legambiente ha riconosciuto al premier e al suo governo di essere stato l’esecutivo che più ha investito in questo campo. Il suo governo, inoltre, passerà anche alla storia come quello che ha finalmente approvato le norme sulle unioni civili (sia pure con qualche limite). Per quanto riguarda la fiscalità da ricordare il taglio dell’irap e dell’ires, l’abolizione di imu e tasi e lo stop alla tasse agricole. Molto si è, poi, discusso sui famosi 80 euro mensili elargiti a circa 11 milioni di italiani, misura inizialmente accusata di essere una mancia elettorale ma poi confermata anche successivamente.

Per quanto riguarda il sociale gli interventi più rilevanti sono sicuramente la legge sul “dopo di noi”, il bonus bebè di 960 euro l’anno, l’aumento delle pensioni minime da un minimo di 100 ad un massimo di 500 euro. Significativi anche gli interventi inerenti la riforma del terzo settore e del servizio civile, la legge contro il caporalato, la legge contro i reati ambientali, il divorzio breve, il tetto sugli stipendi della pubblica amministrazione. Neppure lui, invece, è riuscito a mettere mano al conflitto di interessi, la cui legge controversa e discussa continua ad essere impantanata in Parlamento. Stesso discorso per quanto riguarda la giustizia, con tutti i nodi che di fatto restano irrisolti. Molto difficile il rapporto che ha avuto con gli enti locali, con soprattutto i Comuni che hanno spesso accusato il suo governo di tagli e provvedimenti tali da porli sull’orlo del baratro.

Qualcosa di più ci si attendeva in merito alla lotta all’evasione fiscale, anche se è innegabile che sotto il suo governo i numeri parlano di un aumento del recupero dell’evasione. Di contro, però, alcuni provvedimenti (come ad esempio l’innalzamento delle soglie di punibilità) sono sembrate andare in senso opposto. Debole, soprattutto per uno che prima di arrivare al governo aveva fatto ripetuti annunci in proposito, è inoltre risultata la lotta agli sprechi. E’ innegabile che rispetto al passato qualche taglio in più è stato fatto, ma un serio “assalto” ai tanti privilegi della cosiddetta casta in realtà non c’è stato.

Più controversa la questione, centrale in un periodo di crisi, sull’impatto che avuto sull’economia italiana, giudicato comunque debole e insufficiente, pur in presenza di alcuni dati di segno positivo. In sintesi il pil dal primo trimestre 2014 al terzo trimestre 2016 ha fatto registrare una crescita dell’1,6% (considerata quasi unanimemente troppo debole), mentre è cresciuto il debito pubblico e il rapporto defici/pil. Dati positivi (almeno da un punto di vista numerico) sono sicuramente quelli relativi all’occupazione. Nei 1017 giorni del suo governo il tasso di disoccupazione è sceso dell’1,4% (dal 13 all’11,6%), quello della disoccupazione giovanile addirittura del 5,9% (dal 42,3 al 36,4%), diminuita anche la percentuale dei Neet (giovani che non studiano e non lavorano), dal 27% al 22,3%. E’ cresciuta la produzione industriale (+2,3%) e anche i consumi delle famiglie (+3%).

Numeri, dati e fatti che, ovviamente, ognuno può interpretare e intendere come preferisce. Quel che è certo è che, quale che sia il giudizio che ognuno legittimamente può avere su questi 1017 giorni, è innegabile che l’avventura di Renzi alla guida del paese è comunque destinata a lasciare un segno importante nella storia politica italiana.

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