Una vita di scorta


Mentre si continua a discutere sull’eccessivo e spesso inutile ricorso alle scorte, che costano oltre un miliardo di euro all’anno, Roberto Saviano “festeggia”  i primi 10 anni sotto tutela. E la sua storia, come quella di alcuni giornalisti e magistrati, ci racconta le privazioni e i limiti alle libertà personali che è costretto a subire chi si trova in quella condizione

Questa vita è una merda, è difficile descrivere quanto sia brutta. Io esisto dentro quattro mura e l’unica alternativa è fare apparizioni pubbliche. O sono all’Accademia dei Nobel a tenere un dibattito sulla libertà di  stampa o in una stanza senza finestre in una caserma della polizia. Luce e buio. Non c’è ombra, niente mezze misure. A volte guardo indietro allo spartiacque che divide la mia vita prima e dopo Gomorra. C’è un prima e dopo su tutto, comprese le amicizie”.

Così Roberto Saviano in poche ma efficaci parole, descrive la sua vita sotto scorta. Proprio nei giorni scorsi il giovane scrittore casertano ha “festeggiato” i suoi primi 10 anni sotto scorta, iniziati dopo la pubblicazione di “Gomorra”, un libro che racconta la guerra tra due clan di camorra per il controllo del territorio, la violenza tra loro che si riversava nelle strade, cosa vuol dire vivere in una “zona di guerra”. Diventato ben presto un bestseller, “Gomorra” ha infastidito, e non poco, la camorra che ha immediatamente reagito. Il primo avvertimento fu un volantino lasciato nella cassetta della posta della madre, con una fotografia di Saviano con la pistola puntata in testa e la scritta “condannato”.

Dopo un suo intervento all’inaugurazione dell’anno scolastico a Casal di Principe, durante il quale indicò dal palco i boss, facendo pubblicamente i loro nomi, per lui la situazione inevitabilmente precipitò. Pochi giorni dopo, di ritorno a Napoli da un festival letterario, trovò i carabinieri ad attenderlo e a portarlo via con una macchina blindata. Da quel momento è iniziata la sua vita sotto scorta, raddoppiata nei mesi successivi dopo che in carcere il boss Salvatore Cantiello, guardando un servizio su di lui al telegiornale, avrebbe detto: “continua a parlare perché presto non parlerai più”.

Negli ultimi otto anni, ho viaggiato ovunque in due automobili a prova di proiettile con sette guardie del corpo addestrate  – racconta Saviano – vivo nelle caserme di polizia o in anonime stanze d’albergo e raramente trascorro più di un paio di notti nello stesso posto. Sono passati più di nove anni da quando ho preso un treno, guidato una Vespa, fatto una passeggiata o sono uscito per una birra. Tutto è programmato al minuto, nulla è lasciato al caso. Fare qualsiasi cosa spontanea, solo perché ne ho voglia, sarebbe ridicolmente complicato. Dopo tutti questi anni sotto la protezione dello Stato, mi sento quasi in colpa per essere ancora vivo.  Napoli è diventata off-limits per me, un posto che posso visitare solo nei miei ricordi. Viaggio intorno al mondo, saltando da paese a paese, come se si trattasse di una scacchiera, facendo ricerche per i miei progetti, alla ricerca di eventuali laceri resti di libertà”.

Le parole di Saviano dovrebbero farci riflettere e, soprattutto, dovrebbero farci ricordare cosa significhi vivere sotto scorta, una privazione quasi totale della libertà. Perché negli ultimi tempi, presi dalla smania di contestare i privilegi e gli “sprechi” della casta (tra cui si è soliti annoverare anche l’eccessivo uso delle scorte), ci siamo dimenticati di chi la scorta è costretto ad averla perché seriamente a rischio della vita e, soprattutto, di cosa realmente significhi vivere una vita sotto scorta. Il fatto è che parliamo di due situazioni che, pur se possono apparire in qualche modo unite, in realtà non hanno nulla in comune.

Che nel nostro paese ci sia un ricorso eccessivo e, spesso, inutile alla scorta è un dato di fatto. Così come è indiscutibile che questo comporta una clamorosa spesa a carico dei cittadini e, al tempo stesso, il fatto che in tal modo centinaia e centinaia di agenti vengono tolti da quelli che potrebbero essere servizi fondamentali per la sicurezza. Attualmente si calcola che sono poco meno di 600 le personalità che vivono sotto scorta, per una spesa annua  di oltre un miliardo di euro ed un impiego di circa 2 mila agenti.

Oltre alle cariche istituzionali più importanti, a stabilire chi ha diritto alla scorta c’è dal 2002 l’Ufficio Centrale Interforze per la Sicurezza Personale (Ucis), istituito con decreto legge dal governo Berlusconi dopo la morte di Biagi (a cui, ricordiamo, fu rimossa la scorta). E’ il prefetto a segnalare la necessità di attribuire a qualcuno la scorta, l’Ucis esamina la richiesta e, sulla base di altri accertamenti, dispone se assegnarla o meno e con quali modalità.  Ad usufruire della scorta e delle auto blindate sono innanzitutto politici, magistrati, pentiti, sindacalisti, presidenti di regione e sindaci.

Tutti ricorderanno le polemiche dei mesi scorsi dopo la pubblicazione della foto del sindaco Raggi al supermercato con la scorta ma in pochi sanno che il primo cittadino della capitale non ha scelta, la scorta viene praticamente imposta. Allo stesso modo viene imposta per legge (e non si capisce per quale ragione non si possa rivedere la legge stessa) agli ex presidenti di Camera e Senato, come ad esempio Pera, Bertinotti e Casini, come agli ex ministri di giustizia e dell’interno. Negli ultimi anni, poi, ha destato parecchio scalpore scoprire che hanno la scorta anche Paolo Cirino Pomicino (condannato in via definitiva per corruzione), i coniugi Mastella, l’avvocato ed ex deputato Taormina, volti noti della tv come Bruno Vespa ed Emilio Fede ma anche Maurizio Belpietro, nonostante le indagini abbiano poi stabilito che il presunto tentativo di attentato nei suoi confronti, denunciato dalla sua guardia del corpo, in realtà era una bufala.

E proprie queste situazioni, queste esagerazioni difficili da comprendere ci hanno fatto perdere di vista quella che è l’altra faccia della questione, il fatto che a trascorrere una vita sotto tutela, che come ha ben descritto Saviano non comporta alcun privilegio ma solo enormi limitazione alle proprie libertà personali, sono uomini e donne che hanno dedicato la loro vita a lottare contro il malaffare, contro la delinquenza, contro la corruzione. Parliamo, in particolare, di giudici, magistrati e anche giornalisti (si la categoria, dopo i politici, giustamente più bistrattata dall’opinione pubblica italiana).

Che giudici e magistrati che si occupano di mafia, camorra, ndrangheta, vivano sotto scorta ormai lo riteniamo una normale prassi, c’è chi, come il giudice antimafia Nicola Gratteri, vive così da quasi 30 anni. Ma la cronaca ci racconta anche di situazioni estreme, come quella del figlio di 9 anni di un pm siciliano costretto a vivere sotto protezione  perché il padre, che fa parte della Direzione distrettuale antimafia, ha smascherato un finto pentito che, in realtà, si è dimostrato essere il boss di una delle cosche più sanguinarie dell’isola.

Che, poi, in carcere è stato intercettato mentre intimava ai suoi fedelissimi di uccidere il figlio di 9 anni del magistrato. Che ora non ha più la possibilità di vivere la normale vita di un ragazzino di quell’età, costretto a muoversi sempre con gli agenti dietro e a vivere le situazioni tipiche che vivono tutti coloro che sono sotto tutela (per ragioni concrete), compresa quella di diventare una sorta di “appestato” da evitare accuratamente anche per quelli che prima erano considerati amici. Ma non sono solo i magistrati che lottano contro le cosche a finire sotto tutela, a volte può capitare anche a chi conduce normali inchieste giudiziarie.

Come è successo al pm di Rimini Paola Brunetti a cui è stata assegnata la scorta dopo essere stata minacciata pesantemente,  anche con volantini, scritte sui muri cittadini e appelli sul web, dai gruppi della sinistra antagonista dopo un’inchiesta che ha portato all’arresto di 5 giovani militanti. Ma la storia ci racconta (e, come visto, Saviano è l’esempio più evidente) che spesso anche scrivere o raccontare certi fatti può esporre a gravi rischi, al punto di dovere ricorrere alla scorta.

Secondo l’Osservatorio Ossigeno, promosso dalla Federazione nazionale stampa italiana e dall’Ordine dei giornalisti, negli ultimi 4 anni sono quasi 1500 i giornalisti italiani che hanno subito minacce, tra aggressioni, avvertimenti, danneggiamenti. Spesso, in queste situazioni, si è portati a sminuire, a sottovalutare cosa significhi subire una reale minaccia. Ma bisognerebbe passarci, bisognerebbe vivere certe situazioni per capire cosa si prova quando si trova la macchina con le gomme forate con a fianco un biglietto con scritto “ti ammazzeremo”. O quando si ricevono lettere anonime (ma così ben circostanziate da far immediatamente capire il motivo della minaccia) nelle quali la minaccia viene estesa anche ai propri familiari, magari fornendo precisi riferimenti sulle abitudine e sugli spostamenti del consorte, dei figli, tanto per far capire senza dubbi che, se si vuole, si sa come e dove colpire.

A volte sono minacce occasionali, episodiche, in altri casi è qualcosa di più concreto e all’improvviso la propria vita cambia. Anzi, verrebbe da dire che non esiste più una “propria” vita. Come è accaduto al cronista giudiziario del “Quotidiano del Sud” Michele Albanese, che da sempre si occupa di quanto avviene nella piana di Gioia Tauro, sotto scorta dal luglio 2015. Da quando, cioè, la questura di Reggio Calabria lo convoca con urgenza per un incontro con il prefetto e con il procuratore che gli rivelano che la polizia ha intercettato una conversione tra due boss della ‘ndrangheta che, riferendosi ad Albanese, dicono “A questo lo fanno zumpare (saltare) con tutta la macchina”. Minaccia che la polizia ritiene più che credibile e per lui inizia la vita sotto tutela.

Fa male sentirti come un estraneo, un pericolo ambulante, essere trattato come un vero appestato – confessa – il contesto culturale che ti circonda alla fine ti isola, fa terra bruciata. I conoscenti, gli amici, le stesse fonti a cui ti rivolgevi per lavoro, ti evitano. Hanno paura, temono ritorsioni. Cambia tutta la tua vita. Cambia perfino il tuo modo di pensare. A volte penso: vivo sotto scorta per quello che ho scritto. Ma siamo in Italia, nel 2015. In un paese che si vanta di essere una democrazia compiuta”.

Situazione simile, aggravata dal fatto di essere mamma di due figli, è quella che sta vivendo Federica Angeli, giornalista di Repubblica che “paga” alcuni reportage di denuncia contro alcune famiglie della criminalità organizzata di Ostia, sospettate di essere legate alla mafia. Minacciata prima di persona (un componente della famiglia Spada in strada gli ha urlato che presto le avrebbe sparato in faccia), dopo aver denunciato una rissa finita con accoltellamenti e colpi di pistola tra due famiglie “malavitose” fuori dalla più grande sala giochi di Ostia, è stata oggetto di ripetute minacce anonime (“Morirai sotto casa”).

La sua situazione si è poi aggravata dopo che la maggior parte dei 51 arrestati per mafia, anche grazie alle sue inchieste, ad Ostia è tornata in libertà per decorrenza dei termini della carcerazione preventiva. Secondo procura, polizia e prefetto la sua vita e quella dei suoi familiari è in pericolo, inevitabile finire sotto tutela. A peggiorare la sua situazione i ripetuti e insopportabili attacchi  che la giornalista ha dovuto e deve ancora subire ad alcuni esponenti locali del Movimento 5 Stelle che non le hanno perdonato di aver sottolineato,  in un articolo, il fatto che il reggente del clan Spada era solito condividere sul proprio profilo facebook alcuni contenuti del parlamentare 5 Stelle Alessandro Di Battista. Al punto che, quando il X Municipio e la giunta Tassone approvarono un ordine del giorno in solidarietà della Angeli, il Movimento 5 Stelle per “ripicca” si astenne.

Al di là di questi particolari, resta il fatto che la vita di quella giornalista, così come della sua famiglia e dei suoi figli è stata stravolta. Così come quella di Saviano, di Albanese, di tutti quei magistrati che combattono contro le varie mafie. Dovremmo ricordarcelo quando parliamo e ci lamentiamo dell’eccessivo utilizzo delle scorte, un privilegio spesso incomprensibili per i politici, una pesante ma inevitabile privazione della libertà per chi rischia concretamente la vita.

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