Il grande bluff


Con  ben 14 Consigli regionali su 20 e centinaia di consiglieri regionali finiti sotto indagine, le Regioni negli ultimi anni  sono diventati nell’immaginario comune l’emblema di una classe politica avida e corrotta. Ma tribunali e sentenze ora raccontano un’altra storia, con il 90% degli indagati che sono stati scagionati o assolti

In principio ci fu lo scandalo di Franco Fiorito, il consigliere regionale del Lazio del Pdl noto anche con il soprannome di “Batman”. Poi pian piano sotto accusa sono finiti uno dopo l’altro quasi tutti i consigli regionali, tanto che tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 tutti i mezzi d’informazione davano ampio risalto a quello che sembrava essere un fenomeno di malaffare tipico delle Regioni.

“Le spese pazze regione per regione” titolava un’inchiesta del 2014 di “Panorama”, con un sotto titolo sicuramente ad effetto “Sono 15 le amministrazioni sotto inchiesta per peculato o altri reati. Ecco la mappa dello scandalo. Spese folli, l’Hit Parade”. “Regioni: l’esercito dei consiglieri indagati” titolava alcuni mesi dopo un’inchiesta analoga de “l’Espresso”, mentre “Il Sole 24 Ore” sottolineava come l’Italia avesse il primato europeo dei consiglieri regionali indagati. In brevissimo tempo si diffuse l’idea che le Regioni rappresentassero l’emblema di una classe politica di corrotti, di persone che usano a piacimento e senza alcuno scrupolo i soldi pubblici.

Certo la storia di “Batman”, poi condannato a 3 anni e 4 mesi di reclusione, finì per influenzare non poco. Il consigliere regionale del Pdl, almeno secondo quanto emerso dal processo. aveva sottratto oltre un milione di euro alle casse del suo partito, soldi provenienti dai cosiddetti rimborsi per i gruppi regionali. Le immagini e i racconti delle feste e delle cene organizzate da Fiorillo grazie ai quei soldi pubblici, le foto della sua villa (poi finita sotto sequestro), la storia della jeep acquistata, sempre con i soldi pubblici, per fronteggiare la nevicata su Roma del 2012 (che poi, ironia della sorte gli è stata restituita dai giudici) inevitabilmente hanno finito per condizionare un’opinione pubblica già piuttosto “arrabbiata” nei confronti della “casta”.

Un comune sentire che i numeri e i dati che emergevano contribuivano ad accentuare. Ben 14 su 20 Consigli regionali sotto indagine, oltre 500 indagati su un totale di 1.356 tra presidenti, assessori e consiglieri regionali, nel mirino dei giudici anche diversi presidente di Regione. Cifre imbarazzanti che, oltre tutto, alcune procure sottolineavano come facessero riferimento solo agli ultimi 3 anni, con l’annuncio che, terminato il lavoro sulle legislature ancora in vigore, si sarebbe passato poi ad esaminare gli anni precedenti “dove sarà più difficile scovare le irregolarità a causa di leggi che permettevano di rendicontare senza troppe precisazioni”.

Di fronte ad un simile scenario, era praticamente impossibile non indignarsi e non gridare allo scandalo, anche perché, in un paese sempre più travolto dall’ordalia giustizialista, ormai l’essere indagato per la maggior parte delle persone automaticamente significa essere colpevole e, quindi, da condannare. D’altra parte in quei mesi i quotidiani e i settimanali italiani hanno versato litri e litri di inchiostro per raccontare e descrivere nel dettaglio le “ruberie” e gli “sprechi” dei consiglieri, in una gara a chi trovava la spesa più singolare e ingiustificabile, senza la minima precauzione e, ancor meno, senza neanche farsi venire il dubbio che essere indagati non significa automaticamente essere colpevoli.

Come non ricordare, ad esempio, l’incredibile campagna mediatica che si scatenò anche nella nostra regione  dove ben 66 consiglieri regionali, tra cui anche il presidente della Regione Spacca, erano finiti nel mirino della procura. Sulla vicenda come al solito si era distinto il Fatto Quotidiano per il quale, a parte quando si tratta di qualche politico “amico”, un indagato equivale non tanto ad un condannato quanto ad un delinquente sicuro. Ma anche giornali e quotidiani locali avevano fatto la propria parte, facendo a gara a chi pubblicava i particolari più clamorosi, dal libro sui segreti dell’orgasmo femminile acquistato con i rimborsi dei gruppi consiliari regionali, alle immancabili cene. E poi alberghi, regali, night e tutto il campionario che viene tirato fuori in queste circostanze.

Un quadro davvero imbarazzante – scriveva allora un quotidiano locale – che demolisce la credibilità della classe politica regionale”. In pratica non ci sarebbe stato neppure bisogno di effettuare i processi, dopo la gogna mediatica le sentenze erano già state ampiamente scritte. Proprio questa ondata di inchieste (e, per alcuni, di automatiche condanne), tra l’altro, era diventato inizialmente uno dei “cavalli di battaglia” di una parte dei sostenitori del no al referendum. Come si fa a mandare in Senato, per giunta con l’immunità, proprio la classe politica più corrotta e più nei guai con la giustizia (cioè i “regionali”) sostenevano allora i “pasdaran” del no. Tesi che, in effetti, di fronte a certi dati sembrava difficile contestare.

Però, con il passare dei mesi, pian piano che le inchieste sui vari consigli regionali sono arrivate al termine, tribunali (quelli veri, non quelli della gogna mediatica) e sentenze hanno iniziato a raccontare una storia completamente diversa, a smontare prima, fino poi a sgretolare e distruggere le tesi di chi aveva già espresso giudizi definitivi sulla classe politica regionale. In Emilia Romagna, Piemonte, Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta e Marche sono arrivate le sentenze. Ed il quadro che hanno disegnato è completamente differente, praticamente ribaltato.

Praticamente il 90% degli indagati è risultato innocente (127 su 142), addirittura in alcuni casi con archiviazione decisa prima ancora di arrivare a processo. Assolti con formula piena i presidenti delle Regioni coinvolti a vario titolo nelle inchieste, da Cota (Piemonte) a Loiero (Calabria), da D’Alfonso (Abruzzo) a De Luca (Campania), da Errani (Emilia Romagna) a Spacca (Marche). In Valle d’Aosta tutti i 24 consiglieri regionali indagati sono stati assolti, nel Friuli Venezia stessa sorte per 18 su 22 (per uno è stato chiesto il processo). Per certi versi ancora più clamoroso il dato nelle Marche, con 60 su 66 scagionati (gli altri 6 dovranno affrontare il processo, quindi la loro posizione è ancora da valutare).

Sorpresa? Neanche tanto, almeno sulla base dell’inchiesta marchigiana che, per chi l’ha seguita un po’ da vicino, era quasi scontato che finisse in quel modo. Anzi, in alcuni casi bisognerebbe chiedersi come è stato possibile, a fronte di fatti evidentemente irrilevanti dal punto di vista penale, che qualcuno di quei consiglieri abbia dovuto sopportare una lunga gogna mediatica assolutamente ingiustificata. E, se pure non abbiamo seguito da vicino le inchieste nelle altre regioni, come invece è accaduto nelle Marche, è inevitabile che i dubbi si allunghino anche sulle altre regioni.

La sensazione è che si sia fatto un gran polverone per niente, che dopo quanto emerso nel Lazio le procure si siano mosse con desiderio di emulazione, finendo per creare un caso che poi, almeno i fatti emersi fino ad ora dimostrano essere assolutamente infondato. Certo poi ci sarebbe anche da sottolineare come in un paese civile le indagini dei pm non dovrebbero essere trattate come avviene in Italia, dove il semplice avviso di garanzia praticamente equivale ad una condanna.

Ovviamente non si può e non si deve chiedere alla magistratura di non indagare su certi fatti perché poi gli organi di informazione finiscono per strumentalizzare tutto. Però è lecito attendersi un’attenzione e un atteggiamento diverso, meno teso a spettacolarizzare le inchieste e più improntato alla ricerca della verità. Quanto accaduto nelle Marche, ad esempio, non può non sollevare dubbi. Diversi consiglieri comunali , se fossero stati ascoltati dai pm (come, per altro, avevano chiesto), probabilmente avrebbero potuto chiarire subito tutto e dimostrare l’assoluta correttezza del loro comportamento. Cosa che hanno potuto fare, ma quasi 2 anni dopo, davanti ad un giudice.

Caso Marche a parte, il dato generale che emerge dai procedimenti reali (non quelli istituiti da alcuni tribunali speciali mediatici) è che, alla fine, la stragrande maggioranza dei consiglieri regionali ha agito correttamente. E che, quindi, tutte le accuse, tutte le teorie sul “malaffare” dilagante proprio nelle Regioni erano assolutamente infondate. Naturalmente sarebbe folle pensare che, pur di fronte a simili evidenze, chi in passato ha “sparato zero”, abbia ora il buon senso e il coraggio di scusarsi, di riconoscere che certe prese di posizione erano esagerate.

Anzi, per alcuni le sentenze continuano ad essere un optional, un particolare del tutto irrilevante. “Il più grande scandalo dopo Tangentopoli sta scivolando verso l’oblio. Come se nulla fosse accaduto” scriveva pochi giorni fa il Fatto Quotidiano dopo l’assoluzione dell’ex presidente del Piemonte, il leghista Cota. “Il contraccolpo giudiziario delle assoluzioni – si legge ancora in quell’articolo – e le voci bipartisan che si vanno levando a reclamare un lavacro garantista per l’onore infangato dei consiglieri regionali dimostrano la bancarotta morale di una cospicua componente della classe politica italiana”.

Alla quale, evidentemente, non è sufficiente essere stata riabilitata dalla serie infinita di assoluzioni “perché il fatto non sussiste”. Non c’è speranza di fronte a certe ottusi e farneticanti deliri di onnipotenza, di chi si ritiene infallibile e ha la pretesa di sostituirsi e di essere più autorevole dello stesso sistema giudiziario.

Farneticazioni del Fatto Quotidiano a parte, però, ciò che emerge dagli atti e dai procedimenti giudiziari disegna una realtà completamente diversa da quella che che ci è stata raccontata per tre anni. Un vero e proprio bluff, smascherato anche se con un certo ritardo…

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