Dal bikini al burkini: storie di tabu, divieti e di lotte per difendere la libertà
Nella spiaggia dove Brigitte Bardot “sdoganò” il bikini parte, tra mille contraddizioni, la “crociata” francese contro un costume definito “espressione di un’ideologia basata sull’asservimento della donna”
Dal bikini al burkini. Sono passati quasi 60 anni da quando la spiaggia di Cannes finiva al centro dell’attenzione mondiale per un costume nuovo, rivoluzionario che negli anni avvenire sarebbe diventato uno dei simboli del femminismo. Il bikini, in realtà, era stato creato diversi anni prima, nel luglio del 1946 da un sarto francese, Louis Reard. Il nome richiamava l’atollo Bikini nelle isole Marshall, luogo dove gli Stati Uniti conducevano test nucleari. Quel sarto francese riteneva che il suo costume, un’evoluzione del primo due pezzi (l’Atome), avrebbe avuto effetti dirompenti ed esplosivi. E non aveva torto perché sin dalla sua apparizione il bikini creò forte scandalo, perché per la prima volta una donna mostrava l’ombelico, le gambe e il seno.
Per questo per anni rimase ai margini, fino a quell’estate 1958 quando a Cannes,una giovane e prorompente Brigitte Bardot mise fine al tabù indossandolo nel film “E Dio creò la donna”. Subito dopo seguì un secondo film,”Manina, The girl in bikini”nel quale la bella BB faceva di nuovo sfoggio del bikini, sempre sulla spiaggia di Cannes. Quasi 60 anni dopo, la stessa spiaggia francese, è di nuovo protagonista di un evento per certi versi non meno rivoluzionario.
Il Comune di Cannes ha vietato di indossare in spiaggia il burkini, il costume integrale ideato per le donne islamiche. Altri comuni transalpini hanno seguito l’esempio e, proprio nelle ultime ore, è arrivata anche la presa di posizione del premier francese Valls che esprime il proprio sostegno al bando spiegando che “il burkini è incompatibile con i valori della Francia. Non è un costume ma l’espressione di un’ideologia basata sull’asservimento della donna”. Già, ma si può difendere il concetto di libertà con un provvedimento che, di fatto, pone un limite alla libertà stessa? Prima di provare a rispondere a questo e ad altri quesiti, cerchiamo innanzitutto di capire cosa è il burkini .
La sua creazione viene attribuita ad un’australiana di origine libanese, Aheda Zanetti, nel 2004. L’idea alla base della sua ideazione era quella di trovare una tenuta che fosse adatta alle donne sportive ma anche pudiche. In pratica un costume destinato a quante fino ad allora facevano il bagno velate. Il suo nome provoca spesso l’errata convinzione che il burkini sia una via di mezzo tra il burka e il bikini. In realtà, però, è una via di mezzo tra un hijab (l’abito utilizzato dalle donne musulmane che lascia il volto scoperto) e un costume intero che copre il capo, le spalle e le gambe lasciando il volto scoperto e ben in vista.
Non è, quindi, un burka da bagno e questa non è una distinzione fine a se stessa perché è importante ricordare che in Francia (come in Belgio) dal 2010 è vietato l’uso del burka e del niqab (cioè i due abiti che coprono il volto della donna) ma non del hijab. In brevissimo tempo il burkini ha avuto una vastissima diffusione tanto che secondo la stessa Zanetti in pochi anni sono stati venduti oltre mezzo milione di costumi e, nel solo 2015, le vendite sono cresciute del 40%.
Tornando al provvedimento del Comune di Cannes, come prevedibile ha subito provocato polemiche e proteste, con in testa la Lega dei diritti dell’uomo che ha definito il divieto “un gesto di stigmatizzazione che lede le libertà individuali. Non si può imporre alle persone, qualsiasi cosa si pensi del significato del burkini, il modo in cui si devono vestire”. Ad un’analisi più profonda, il divieto del sindaco di Cannes e le motivazioni che hanno spinto il premier a manifestare il proprio appoggio contengono delle evidenti contraddizioni. Valls ha, infatti, sottolineato come il burkini , abbigliamento di manifesta natura religiosa, è incompatibile con i valori della Francia. Le affermazioni del premier si poggiano sul tradizionale e prezioso secolarismo francese, l’affermazione della laicità dello Stato che affonda le proprie radici nell’idea che lo Stato in sé si ponga in maniera neutrale, ma anche che la gente debba avere il diritto d’esprimere liberamente le proprie convinzioni religiose.
Ma un paese che fa della libertà di culto un valore, anzi un vanto, un elemento costitutivo della propria cultura, non può porre un divieto legato a questioni religiose. E’ l’esatto opposto dei concetti di laicità e di stato di diritto ai quali i francesi sono così orgogliosamente legati. Inoltre con questo atto si va a incidere negativamente sulla libertà delle donne musulmane, nello specifico nei confronti di coloro che, pur aspirando all’integrazione all’interno degli spazi pubblici, prediligono un abbigliamento più sobrio e, quindi, ricorrono a costumi da bagno che vanno a coprire l’intero corpo (appunto i burkini).
Certo il dubbio su quanto in realtà siano libere quelle donne che scelgono il burkini rimane. E se è indiscutibilmente da sottoscrivere la condanna, da parte del premier francese, del concetto di asservimento della donna, appare ridicolo e per certi versi infantile identificare questa sottomissione con il burkini. Che non è un simbolo di sottomissione ma spesso una moda che sta prendendo piede tra le giovani musulmane. Anzi l’uso del burkini è spesso una scelta consapevole di una generazione di donne francesi che, purtroppo, tende sempre più ad identificarsi con la propria religione più ancora che con il proprio paese. E se questo è un aspetto poco rassicurante e che dovrebbe far riflettere, è chiaro però che il modo peggiore per affrontarlo è quello di porre dei divieti.
Inoltre, come abbiamo visto, per la legge francese la discriminante è che il volto non sia coperto. Allora per quale ragione si consente, giustamente, l’uso dell’hijab mentre si vieta la sua applicazione da spiaggia? E se il motivo del divieto consiste nello stigmatizzare il suo uso come rivendicazione religiosa allora bisognerebbe vietare a centinaia e migliaia di donne di passeggiare per le vie di Parigi o di qualsiasi altra città francese con l’hajab.
Nel testo del divieto si legge, poi che “l’abbigliamento da spiaggia che manifesta ostentatamente la propria appartenenza religiosa, in un momento in cui la Francia e i luoghi di culto sono oggetto di attacchi terroristici, può portare al rischio di turbamento dell’ordine pubblico“. Eppure il sindaco di Cannes (e ancora di più il premier Valls) dovrebbe sapere che proprio gli ultimi sanguinosi attentati hanno evidenziato una situazione piuttosto differente, con gli autori delle stragi che non vivevano certo seguendo con rigore i dettami della religione islamica e, anzi, in apparenza seguivano costumi di vita spiccatamente occidentali. Tra l’altro non bisogna certo essere dei particolari strateghi per comprendere che, in un momento delicato come questo, porre un divieto così smaccatamente rivolto alle comunità islamiche che sono parte integrante della popolazione occidentale rischia di fornire nuovi argomenti alla brutale propaganda fondamentalista, regalando così nuovi simpatizzanti agli estremisti.
Non secondario, poi, il fatto che quel divieto di fatto viola l’articolo 9 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sul tema della libertà di religione: “Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti“.
Naturalmente le polemiche e il dibattito sul divieto del burkini non potevano non arrivare anche nel nostro paese dove, guarda il caso, a cavalcare il provvedimento francese e a chiederne l’estensione anche in Italia è il segretario della Lega Nord che, dismessi gli abiti da poliziotto, indossa quelli di un improbabile esperto di islamismo, sostenendo che “il costume integrale è simbolo di violenza”. Per una volta è, invece, difficile non condividere quanto sostenuto dal ministro dell’Interno Alfano che senza indugi spiega che l’Italia non seguirà la Francia nel divieto, sottolineando con un certo sarcasmo che “non mi sembra che il modello francese abbia funzionato per il meglio”. Certo, però, che dar ragione ad Alfano suona davvero male…