Bugie, depistaggi, silenzi e omissioni: verità sempre più lontana per l’omicidio Regeni


A 3 anni  dall’uccisione del ricercatore italiano le speranze di giustizia sono ormai ridotte al lumicino. L’Egitto di Al Sisi a parole ha sempre promesso massima collaborazione ma nei fatti ha intralciato in ogni modo le indagini, senza che i governi italiani reagissero concretamente

Quel 25 gennaio del 2016 erano passate da poco le 21 quando, sul proprio profilo facebook, la studentessa Noura Wahby, amica di Giulio Regeni conosciuta nel 2014 a Cambridge, denunciava la scomparsa del ricercatore italiano. Poco prima, alle 19:41, Giulio aveva inviato un sms alla fidanzata in Ucraina dicendole che stava uscendo per incontrare delle persone in piazza Tahir. Il suo corpo, con i chiari segni delle pesanti torture subite, fu ritrovato 10 giorni dopo, il 3 febbraio 2016 a pochi chilometri dal Cairo, in un fosso lungo la strada del deserto che porta ad Alessandria.

Le prime ipotesi fatte allora furono che il rapimento, la tortura e il successivo omicidio fossero legati ai rapporti che Regeni aveva con il movimento sindacale che si opponeva al governo del generale Al Sisi. Con l’inevitabile conseguenza dei forti sospetti di un probabile coinvolgimento nella vicenda dello stesso governo egiziano (attraverso uno dei suoi servizi di sicurezza.

Tre anni dopo, però, la scomparsa e il barbaro omicidio di Regeni restano ancora un mistero, senza colpevoli, senza indagati, senza segnali che possano anche solo far sperare che prima o poi si possa fare chiarezza (e giustizia). Nel frattempo, però, i rapporti tra l’Italia e l’Egitto, nonostante i palesi e ripetuti depistaggi da parte dell’autorità egiziane e i troppi dubbi che restano in piedi, sono tornati tranquilli e praticamente normali.

Così, mentre per la giornata di venerdì 25 gennaio sono annunciate iniziative in diverse città italiane (tra cui la fiaccolata organizzata a Pisa da Amnesty International, la sola rimasta insieme ai genitori dello sfortunato Giulio a chiedere concretamente giustizia), in questo terzo anniversario la sensazione sempre più forte che prevale è che la verità sulla morte di Regeni non si scoprirà mai, anche perché neppure il nostro paese (a livello istituzionale), al di là dei sempre più flebili e vuoti proclami, non è poi così interessato a conoscerla.

E quella del povero Giulio Regeni è destinata a diventare una delle tante storie tipicamente italiane che resteranno avvolte nel mistero. Ma anche l’emblema di come ormai questo paese viva esclusivamente in funzione della propaganda e della competizione politica, mettendo tutto il resto, anche quelli che dovrebbero essere principi saldi e comuni, in secondo piano. Per quanto inutile possa apparire, ci sembra doveroso, alla vigilia del terzo anniversario della sua scomparsa, ricordare brevemente chi era Giulio Regeni e cosa è accaduto in questi tre anni. Nato a Trieste il 15 gennaio 1988, Regeni ancora minorenne si trasferì prima negli Stati Uniti poi nel Regno Unito per studiare.

I suoi studi e approfondimenti sul Medio Oriente lo portarono per due anni consecutivi (2012 e 2013) a vincere il premio “Europa e giovani” il concorso internazionale organizzato dall’Istituto regionale studi europei. Dopo aver lavorato presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale, nel 2016 stava conseguendo un dottorato di ricerca presso il Girton College dell’Università di Cambridge e si trovava in Egitto per svolgere una ricerca sui sindacati indipendenti egiziani presso l’Università americana del Cairo.

Nei mesi precedenti alla sua scomparsa aveva pubblicato diversi articoli (con lo pseudonimo Antonio Druis) sulla difficile situazione sindacale dopo la rivoluzione egiziana del 2011 che avevano suscitano la forte irritazione di ambienti vicini al governo di Al Sisi. Come ricordato Giulio è scomparso la sera del 25 gennaio ed il suo corpo, nudo e atrocemente mutilato, è stato ritrovato il 3 febbraio successivo.

Evidenti i segni della tortura subita, con contusioni e abrasioni (di quelle tipicamente causate da un grave pestaggio) in tutto il corpo, lividi compatibili con lesioni da calci e pugni, costole, dita di mani e piedi, gambe, braccia e scapole rotte, coltellate multiple ovunque, estese bruciature di sigarette e incisioni somiglianti a vere e proprie lettere. L’esame autoptico ha poi rivelato un’emorragia cerebrale e una vertebra cervicale frattura a seguito di un violento colpo al collo che sarebbe la causa della morte.

I tentativi di depistaggio delle autorità egiziane sono iniziati praticamente subito. Il direttore dell’amministrazione generale delle indagini di Giza dichiarò immediatamente che Regeni era stato vittima di un semplice incidente. Di fronte alle prime evidenze che smentivano clamorosamente questa tesi, la polizia egiziana per un lungo periodo ha provato a portare avanti la testi dell’omicidio per motivi personali, prima sulla base di una presunta relazione omosessuale (Giulio aveva una fidanzata) poi per una ancora più presunta vicenda legata allo spaccio di stupefacenti (l’autopsia ha però confermato che non ha mai fatto uso di droghe).

Se a parole le autorità egiziane hanno sempre garantito una “piena collaborazione”, nei fatti in realtà hanno cercato in ogni modo di intralciare il lavoro degli investigatori italiani, tra riprese video (quelle della stazione metropolitana dove Regeni è stato visto per l’ultima volta) cancellate, tabulati telefonici negati e testimoniati messi a disposizione per essere interrogati solo per pochi minuti. Tra depistaggi e fantasiose tesi alternative in questi tre anni le autorità egiziane si sono davvero sbizzarrite. Poco meno di due mesi dopo il ritrovamento del corpo senza vita di Giulio, la polizia egiziana in una sparatoria ha ucciso 4 uomini che inizialmente furono indicati come probabili responsabili del sequestro di persona di Regeni.

Nella successiva operazione in cui è stata sgominata la banda, ha poi mostrato su facebook di aver ritrovato una serie di oggetti e documenti appartenenti al ricercatore italiano. Pian piano, però, il castello di menzogne costruito dalla polizia egiziana si è letteralmente sgretolato, con il “colpo di grazia” dato dai tabulati telefonici che hanno dimostrato che nei giorni della sparizione di Giulio il capo e diversi componenti della banda in realtà si trovavano ad oltre 100 km dal Cairo.

Dopo aver sempre negato la circostanza, nel settembre 2016 il governo egiziano ha ammesso che il ricercatore italiano era stato sottoposto ad indagini e sorveglianza da parte della polizia. Qualche mese dopo (esattamente dicembre 2016) è stato accertato che il leader del sindacato degli ambulanti (Mohamed Abdallah) che aveva denunciato Giulio Regeni alla polizia di Gyza fino al 22 gennaio lo aveva seguito, comunicando alla polizia stessa tutti i suoi spostamenti.

Tipicamente italico il comportamento delle nostre più alte istituzioni ma, più in generale, di politici e partiti che inizialmente a parole hanno fatto credere di essere pronti ad un vero e proprio “braccio di ferro” con l’Egitto e con Al Sisi, salvo però con i fatti dimostrarsi ben più mansueti.

Nell’aprile 2016, dopo due vertici assolutamente improduttivi, l’allora ministro degli esteri Gentiloni decise per il ritiro del nostro ambasciatore al Cairo. Poco più di un anno dopo (agosto 2017), però, il ministro degli esteri Alfano, pur senza un cambiamento sostanziale nell’atteggiamento delle autorità egiziane (anzi, per certi versi la situazione era addirittura peggiorata), decise non solo di rimandare l’ambasciatore italiano al Cairo ma, addirittura, di sostituire quello che c’era in precedenza, considerato dalle autorità egiziane troppo ostile e intransigente.

Molto attiva, in quel periodo, l’opposizione, fortemente molto critica con il governo di allora e ferma nel chiedere un atteggiamento ben più intransigente. Numerose, ad esempio, le iniziative e le manifestazioni promosse dal M5S e dai suoi leader per chiedere giustizia e per lanciare campagne contro Al Sisi e il governo egiziano. Durissimo anche il leader della Lega Matteo Salvini che, nella primavera 2016, sferrò un duro attacco contro il governo Renzi.

Il comportamento dell’Egitto è una farsa – accusava – l’Italia dovrebbe mostrare gli attributi”. Ora, però, che sono al governo il loro modo di affrontare la vicenda è radicalmente cambiato. “Regeni? Sono più importanti i rapporti con l’Egitto” ha dichiarato il 13 giugno 2018, pochi giorni dopo essere stato nominato ministro dell’interno, Matteo Salvini. Che, poi, per essere ancora più chiaro ha sottolineato come “la richiesta di verità e giustizia per il giovane ricercatore è una questione della famiglia”.

Mi aspetto una svolta sul caso Regeni entro la fine dell’anno – ha dichiarato invece il vicepremier Di Maio nell’agosto scorso dopo aver incontrato il presidente egiziano – Al Sisi ha detto “Giulio Regeni è uno di noi”, l’Egitto è un paese che ci è sempre stato amico”.

Superfluo sottolineare come solo un anno fa la pensava in maniera decisamente differente, così come non dovrebbe neppure servire evidenziare come i fatti concreti di questi tre anni dimostrano inequivocabilmente come Al Sisi e le autorità egiziane non abbiano alcuna intenzione di fare luce sul caso Regeni. E se non bastassero tutte le “balle” inventati e tutti i tentativi di depistaggio, c’è il trattamento riservato in patria a coloro che hanno provato ad aiutare Regeni e, successivamente, la sua famiglia nella ricerca della verità.

Il consulente egiziano della famiglia Regeni e presidente dell’organizzazione non governativa “Commissione egiziana per i diritti e le libertà” nell’aprile del 2016 è stato arrestato dalle forze speciali della polizia egiziana con l’accusa di sovversione e terrorismo. Rilasciato dopo molto tempo, poco dopo il suo stesso destino l’ha subito la moglie Amal Fahty, addirittura processata e condannata a 2 anni di reclusione (attualmente è in corso il processo di appello).

Anche il legale egiziano che seguiva il caso per conto della famiglia Regeni, Ibrahim Metwaly è stato incarcerato con l’accusa di voler sovvertire il governo Al Sisi. Ogni tanto le nostre istituzioni hanno un “rigurgito” d’orgoglio e fingono di mostrare i muscoli. A novembre il presidente della Camera Fico ha deciso per protesta il congelamento dei rapporti tra i due parlamenti.

Nello stesso periodo il ministro degli esteri Moavero ha convocato l’ambasciatore egiziano per manifestare la propria delusione per le indagini che non procedono e non fanno passi avanti. Di certo in questi giorni particolari saranno in tanti che torneranno a parlare del caso Regeni. Poi, come al solito, sulla vicenda del povero ricercatore italiano scenderà nuovamente il silenzio. Un film già visto.

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