Se la dignità vuol dire disoccupazione…


Dalla Calabria al Veneto, fino ad arrivare al nostro territorio, l’unanime denuncia: “il decreto che si prefiggeva di dare più dignità ai precari in realtà ha reso tutti dei disoccupati”. Il caso dell’Abramo Customer Care di Crotone, l’allarme inascoltato di Assolavoro e Federmeccanica

Cosa c’è di dignitoso nel passare da precari a disoccupati? In un paese ormai da troppo tempo immerso e caratterizzato solo dalle guerre di propaganda (quella di chi governa e quella di chi fa, o dovrebbe fare, opposizione), nel silenzio della politica sta pian piano emergendo con sempre maggiore chiarezza un’emergenza, per altro da tempo ampiamente prevista da più parti. Il decreto che nelle intenzioni doveva ridare dignità al lavoro si sta trasformando in un clamoroso boomerang.

Perché non c’è e non ci può essere alcuna dignità o tanto meno alcun tipo di miglioramento nel passare da precari a disoccupati. E’ quello che invece sta accadendo in diverse aziende per effetto del decreto dignità approvato in pompa magna nel luglio scorso e fortemente voluto e sostenuto dal vice premier Di Maio. E le cui disposizioni principali sono entrate in vigore dal 1 novembre, provocando subito quello che qualcuno aveva temuto.

Senza scendere nel campo della propaganda e della disputa politica, visto la delicatezza dell’argomento in questione, detto che il decreto dignità presenta indiscutibilmente degli aspetti ampiamente positivi (come lo stop alle delocalizzazioni e alla ludopatia), è altrettanto innegabile che nella pur condivisibile battaglia contro il lavoro precario evidentemente qualcosa è stato sbagliato, si sono sottovalutati fattori importanti che ora rischiano di produrre esattamente l’effetto contrario.

O meglio, per essere più precisi, di fare in modo che per tanti lavoratori il problema della precarietà si trasformi in quello della disoccupazione. In sintesi, per quanto riguarda il lavoro precario il decreto voluto da Di Maio all’art. 1 (“Modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato”) prevede in particolare una fondamentale modifica all’art. 19 del Job Acts (decreto legge 81/2015), con il nuovo comma 1 che stabilisce che il contratto di lavoro subordinato non può avere una durata superiore ai 12 mesi, aumentabile fino ad un massimo di 24 mesi nei casi in cui ricorra una delle seguenti condizioni: “esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze sostitutive di altri lavoratori; esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”.

In parole semplici, dopo 24 mesi il decreto dignità pone l’azienda di fronte ad un bivio: assunzione indeterminato o licenziamento. E forse si poteva ampiamente prevedere che la prima opzione non è la più percorsa dalle aziende stesse. In questi giorni, ad esempi, sta facendo scalpore e si parla molto di un’azienda di Crotone, l’Abramo Customer Care, dove 400 lavoratori (tutti operatori del call center dell’azienda, quello che gestisce i contatti con i clienti) non si sono visti rinnovare il loro contratto scaduto dopo 24 mesi.

Il titolare dell’azienda ha spiegato (e da un punto di vista del rispetto delle norme ha perfettamente ragione) come questa sua decisione sia assolutamente in linea con i paletti fissati dal decreto dignità. Non potendo (o non volendo) garantire l’assunzione a tempo indeterminato non ha rinnovato il contratto, mandando a casa 400 lavoratori. “Meglio precari che disoccupati” è l’emblematico slogan ripetuto dai 400 lavoratori nel corso del sit-in di protesta di fronte all’ingresso dell’azienda.

Il decreto che si prefiggeva di dare più dignità ai precari in realtà ha reso tutti dei disoccupati – ha spiegato Rita Lorenzano, segretaria provinciale crotonese Cisl donne – tutto ciò avviene nel silenzio generale della politica. Non si possono affibbiare tutte le colpe sulla Abramo Customer Care, perché come tutte le aziende sta facendo tutto ciò che la legge consente di fare. In primis l’utilizzo degli stagisti, poi lo sfruttamento di contratti provenienti da agenzie interinali”.

Purtroppo quello di Crotone è solo l’ultimo di una serie di casi analoghi che, ovviamente, si verificano anche nelle nostre zone. Nei giorni scorsi, ad esempio, Irene ci raccontava come a lei e ad altre 4 colleghe di lavoro è stato detto espressamente che il contratto poteva essere rinnovato a causa delle norme del decreto dignità. “Il lavoro è quello che abbiamo fatto negli anni passati – spiega – back office in un ufficio che si occupa di vendita di servizi, quindi fatture e rinnovi contratti principalmente. Ci hanno detto che non potevano farci un altro contratto proprio perché in passato ci avevano già assunta con contratti a tempo determinato più volte rinnovati”.

Il suo posto e quelle delle sue colleghe nella sua stessa situazione quasi sicuramente andrà ad altre persone con contratto a tempo determinato che non potrà durare più di 24 mesi. Al precariato si aggiunge la disoccupazione, una “genialata”. Di casi simili purtroppo ce ne sono ovunque nel nostro paese. In particolare il problema riguarda le piccole e medie imprese che assumono a tempo nei periodi di maggior lavoro, oltre che le imprese più grandi.

Emblematico, a tal proposito, il caso di una ditta veneta da 230 dipendenti che per questo motivo non ha rinnovato 15 contratti a novembre e altri 30 a dicembre. Nei giorni prima delle festività natalizie sono colpevolmente passati sotto silenzio gli allarmi lanciati da associazioni e operatori del settori

Negli ultimi 2 mesi – ha annunciato l’amministratore delegato di Adecco Group Italia, Andrea Malacrida – solo Adecco ha perso ha perso 20 mila assunzioni ed è facile immaginare che l’intero sistema delle agenzie private ne abbia registrate 100 mila in meno, che su proiezione annuale farebbe circa 400 mila posti di lavoro in meno”.

Secondo Federmeccanica il 30% delle imprese dell’industria metalmeccanica alla data di scadenza non rinnoverà i contratti a tempo determinato in essere, il 37% è invece intenzionato a trasformarli in contratti a tempo indeterminato, mentre il 33% si riserva di decidere alla scadenza. Parliamo di decine di migliaia lavoratori che da precari diventeranno disoccupati e altre decine di migliaia che rischiano di diventare tali.

Secondo Assolavoro a gennaio oltre 50 mila persone non potranno essere ricollocate dalle agenzie del lavoro perché raggiungeranno i 24 mesi di limite massimo per un impiego a tempo determinato. E, aggiunge, si tratta di “una stima prudenziale, approssimata per difetto”.

Il problema non riguarda le buone volontà del decreto dignità – spiega la segretaria provinciale crotonese Cisl donne – ma le conseguenze che, senza degli accurati paletti, tutto ciò diventerà sulle spalle dei lavoratori. Il decreto doveva essere collegato ad incentivi in gradi di permettere alle aziende di trasformare i contratti a tempo determinato in indeterminato”.

Bisognerebbe innanzitutto modificare il cosiddetto contatore – aggiunge Malacrida di Adecco – perché un ragazzo che si avvicina ai 24 mesi si porta dietro il peso dei rinnovi passati e i conseguenti incrementi del costo del lavoro. Lo 0,5% in più diventa una tassa che complica la vita delle aziende e del lavoratore. Le prime si trovano costrette a sostituire i lavoratori competenti con nuove figure ancora da formare e che difficilmente verranno formati, dato che saranno a scadenza per via delle causali.

I secondi invece perdono in occupabilità, ovvero nel bagaglio di proprie competenze utili al mercato del lavoro nel lungo periodo. Bisogna dunque concentrarsi sul concetto di occupabilità invece che sull’occupazione in senso stretto, mettendo ogni singolo lavoratore nelle condizioni di ricollocarsi più facilmente anziché vincolarlo al suo posto di lavoro, eliminando la flessibilità, elemento di cui molte aziende avranno sempre più bisogno nel mondo del lavoro del futuro”. Servirebbe soprattutto un bagno di umiltà e di concreto realismo da parte del governo che dovrebbe mettere da parte, almeno in questo campo così delicato, la propaganda. Per affrontare con serietà le gravi criticità emerse, con la consapevolezza che sarebbe un segnale estremamente positivo dimostrare che si ha paura di cambiare (per davvero) di fronte agli esiti altamente negativi (sicuramente non voluti) di una propria importante decisione.

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